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Intervista

Come fare città con le parole

A scuola di educazione alla poesia con Rahma Nur

Alessandra Navazio
una storia scritta da
Alessandra Navazio
 
 
Come fare città con le parole

La scuola pubblica è uno degli ultimi luoghi in cui persone provenienti da contesti differenti sono chiamate a convivere per molte ore al giorno. Come allenarsi alla democrazia? Rahma Nur, insegnante di scuola primaria, utilizza la poesia. Ecco come

Rahma Nur è nata a Mogadiscio, in Somalia, e vive da oltre 50 anni in Italia. Donna, nera e (dis)-abile, insegna da decenni nella scuola primaria statale. Scrive poesie e racconti, selezionati e pubblicati in diverse antologie e riviste letterarie. Nel 2012 ha vinto il Premio Speciale Rotary Club Torino “Mole Antonelliana” del VII Concorso letterario nazionale Lingua Madre.

Leggi uno dei suoi ultimi libri “Il grido e il sussurro”

Ascolta Rahma Nur al convegno Erickson “La Qualità dell’inclusione scolastica e sociale”

Una scuola in cui si convive senza omologazione, non si indossa lo zaino e si fa poesia: poesia per imparare a esprimersi, a fare cose con le parole1, ad ascoltarsi reciprocamente, a trovare significati inattesi e il proprio ritmo in mezzo alle cose. È la scuola che vive della passione per il sapere e la democrazia di molte e molti insegnanti. È la scuola che Rahma Nur agisce e analizza da decenni, interrogandosi su come abilitare spazi e processi in cui crescere insieme. L’abbiamo incontrata.  

Di recente ha scritto un libro per l’infanzia, Il figlio del sole e della tempesta (Oso Melero edizioni, 2023), che racconta la storia di Hassan, un bambino somalo che fugge in Italia per evitare di essere portato via dagli integralisti islamici. Come vive Hassan l’arrivo in Italia? E lei? Come lo ha vissuto?

Le due storie sono molto diverse: la storia di Hassan è una storia di diaspora, ambientata in un periodo piuttosto recente, la mia è una storia accaduta più di cinquant’anni fa e per motivi del tutto differenti. Mi sono trasferita in Italia dalla Somalia perché ho avuto la poliomielite e avevo bisogno di attenzioni: mia mamma, che già aveva un contratto di lavoro in Italia, ha chiesto il ricongiungimento. Dei primi tempi in Italia ricordo soprattutto gli ospedali, luoghi di cura ma anche di abbandono e di isolamento, perché sentivo parlare una lingua diversa, ero al chiuso e senza la possibilità di uscire all’aperto. Ricordo tanto marmo, porte bianche, un ambiente sterilizzato e persone che mi stavano intorno, occupandosi solo del mio corpo e non della mia immaginazione, della mia voglia di giocare. Al contrario Hassan è fuggito dal proprio paese per una situazione di pericolo. Nel romanzo però non ho voluto parlare tanto del viaggio quanto della sua vita in Somalia prima di scappare: cosa mangiava, cosa indossava, cosa ascoltava. Della Somalia io stessa ricordo la sabbia che entrava dappertutto, la casa di terra battuta, la sensazione di sentirsi sempre impolverati. Del mio arrivo in Italia, invece, ricordo i tanti alberi, i palazzi che non vedevo nel mio paese di nascita, ma soprattutto una prospettiva sulla città di una bambina che gattonava perché non riusciva a camminare. 

 

Questa altra prospettiva sul mondo è poi diventata la tua forza. Dove hai trovato il coraggio? 

Dalla scrittrice e insegnante attivista bell hooks2: avrei tanto voluto conoscerla quando ero bambina o almeno alle scuole superiori! Purtroppo, in Italia non è stata tradotta per tanto tempo, così come molte autrici del femminismo nero: le femministe qui conoscevano Angela Davis ma non bell hooks. Leggere i suoi testi e, in particolare, la trilogia sull’insegnamento3, per me è stato salvifico: mi ha dato la forza per essere chi sono ed emergere nelle mie caratteristiche, non omologandomi. Come bell hooks, che all’università di Southern California era l’unica professoressa nera, ho sofferto molto di solitudine: sono contenta che molti ora la possano leggere. Mi ha aiutata a credere in me stessa, nel percorso di insegnamento e, soprattutto, nella differenza che possono fare le parole.

Come si applica questo tuo pensiero nel contesto scolastico?

Mi chiamano spesso nei corsi di formazione per parlare di abilismo, inclusione e problematiche legate al razzismo: racconto ciò che ho vissuto in prima persona ma anche di che cosa l’insegnante può far capire agli altri. Mi chiedo spesso, infatti, “Come posso far capire che i bambini sono bambini al di là dell’origine? Come posso sviluppare il loro senso critico e indirizzarli verso un’idea di convivenza che rispetti le reciproche differenze?”… Tanti anni fa, ad esempio, quando insegnavo storia e parlavo di Cristoforo Colombo, cercavo di farli ragionare, di andare oltre il libro di testo che spesso rifletteva una visione colonialista, e chiedevo: “Ma siete sicuri che sia stato Colombo a scoprire l’America e non viceversa? Chi ha scoperto cosa?”. Penso che un insegnante debba fare sentire accolto chi ha davanti: ascoltare e lasciare piena libertà di espressione nel rispetto delle differenze e delle libertà reciproche, senza cercare di incanalare le diversità in un modello unico. Per fare questo ho lavorato molto anche su me stessa e sui miei limiti, imparando a uscire da molti stereotipi che anche io mi portavo dentro.

Questo approccio si può applicare anche dal punto di vista del setting, ovvero del contesto fisico: la mia classe4, ad esempio, è una classe senza zaino e vuole essere agevole e accessibile, creando un ambiente dove i bambini possano lavorare insieme e con-vivere. Non ci sono banchi divisi né cattedre, ma delle isole composte da tanti tavoli insieme in cui lavorare in gruppi, a coppie o singolarmente. Noi maestre ci sediamo accanto a loro. In piccolo, questa è una grande rivoluzione che passa attraverso la strutturazione dell’ambiente fisico.

Una foto di una classe senza studenti. Ci sono tre banchi e delle sedie.
Una delle aule dove insegna Rahma Nur. Fonte: Rahma Nur. Tutti i diritti riservati. Concessa con il consenso dell’autrice

Quale dovrebbe essere per lei, quindi, il rapporto tra la scuola e la città da un punto di vista strutturale? Come si costruisce un edificio scolastico per tutti e tutte?

La co-progettazione dei luoghi è la chiave: architette e ingegneri dovrebbero collaborare insieme alle persone a cui sono destinati gli edifici e, quindi, in questo caso, alle insegnanti, agli educatori, alle psicologhe, alle famiglie e agli alunni. Non si deve pensare solo alla bellezza dell’edificio ma anche alla sua fruibilità sia da parte del bambino che corre come uno scalmanato che da parte del bambino che può essere non vedente e ha bisogno di capire dove si trova.

Ad esempio, negli Stati Uniti, in Texas, dove si è trasferito mio fratello, quando le figlie si sono iscritte nella scuola del quartiere, il sindaco ha mandato un pacchetto di benvenuto con le informazioni sul territorio, scuola compresa. La scuola stessa delle mie nipoti era costruita come un ecosistema di spazi: l’angolo della maestra con il caffè, il bagno della classe, l’aula con la televisione e i giochi, i tavoli con varie tipologie di sedute. 

E la poesia? Quando è entrata nella sua vita? E tra i banchi? 

La poesia e l’insegnamento sono state due cose disgiunte per molto tempo. A casa avevo i miei momenti di raccoglimento in cui scrivevo mentre a scuola amavo e amo insegnare italiano. Ho studiato e approfondito il linguaggio poetico sempre con molta passione, ancor prima di pubblicare. Oggi lavoro molto con la poesia con i miei alunni e alunne: è uno strumento importantissimo per aiutarli a raccontarsi e a esprimersi. La poesia non deve essere per forza emozionale ma può essere anche uno strumento per giocare con la lingua e imparare a usare le parole. Credo che nel nostro lavoro di insegnanti si possa e si debba trasmettere amore per una disciplina e una materia di studio, solo se la si ama. Questo è il motivo per cui lavoro in classe con la poesia: mostro loro che magie si possono creare con le parole e questo li conquista.

Leggo molto ai miei ragazzi e alle mie ragazze: poesie più semplici e testi più complessi, come quelli di Ungaretti e Montale ma anche di autrici lontane da loro (ma vicine a me) come Langston Hughes e Maya Angelou o ancora più lontane e, quindi, africane o asiatiche, se mi capita. Li sfido a fare l’impossibile e, senza scavare troppo, li conduco attraverso i versi, facendoli ragionare per scoprire le parole e le immagini. Il lavoro è spesso collettivo: inizio dal creare collettivamente fino ad abituarli a lavorare individualmente o a coppie. A volte gareggiamo a inventare versi e questo li stimola a pensare e a scrivere altre poesie. Dopo quattro anni con il gruppo-classe a cui attualmente insegno, vedo che, adesso, quando lavoriamo sui testi poetici e non prendono appunti, si scrivono frasi e metafore che scoprono o che sentono per poi usarle.

La poesia è impegno ma anche quotidianità. È universale perché a partire da un oggetto semplice come un quaderno di scuola o una penna, può fare affrontare gli argomenti più svariati. Attraverso la poesia, possiamo incontrare storie e realtà diverse dalla nostra, esaminare argomenti difficili e scoprire come siamo simili, pur provenendo da luoghi lontani. 

Da una parola si possono creare tante belle cose.

Una volta era venuta fuori la parola zerbino, la maggior parte dei bambini non sapeva cosa volesse dire e io ho proposto: “Prima di andare a vedere sul dizionario, per voi cosa vuol dire? Proviamo a immaginare cosa può essere uno zerbino”. Ne è nata una filastrocca a cui ciascuno ha contribuito. Questo modo di lavorare serve per far vedere come nelle nostre diversità siamo unici, irripetibili, dei veri e propri gioielli. 

E anche per immaginare una città diversa e universale in cui tutte le differenze che la poesia ci insegna possano convivere. La tua poesia preferita? 

Still I Rise di Maya Angelou, è la mia vitamina ricostituente.

Angelou, M. (1978) “Still I Rise”. In And Still I Rise: A Book of Poems. Fonte: The Complete Collected Poems of Maya Angelou (1994). Tutti i diritti riservati. Utilizzato su autorizzazione di Random House, un’impronta e una divisione di Penguin Random House LLC.


  1. Come fare cose con le parole (Austin, 1962) è una raccolta di lezioni tenute dal filosofo John Langshaw Austin all’Università di Harvard. La principale novità del filosofo inglese è quella di aver introdotto per la prima volta la teoria degli atti linguistici, per cui  le parole provocano dei cambiamenti quando vengono pronunciate, come nel caso delle promesse. ↩︎
  2. Bell hooks (nata il 25 settembre 1952 a Hopkinsville, Kentucky, Stati Uniti – morta il 15 dicembre 2021 a Berea, Kentucky) è stata una studiosa e attivista americana il cui lavoro ha esaminato le connessioni tra razza, genere e classe. Ha spesso esplorato le diverse percezioni delle donne nere e delle scrittrici nere e lo sviluppo delle identità femministe. Cfr. Encyclopaedia Britannica. (2024, March 12). Bell hooks | Biography, Books, & Facts. ↩︎
  3. hooks, b. (1994). Teaching to transgress. (Feminoska, Trans.) Meltemi; hooks, b. (2003). Teaching Community: A Pedagogy of Hope. (Feminoska, Trans.) Meltemi; hooks, b. (2009). Teaching Critical Thinking: Practical Wisdom. (Feminoska, Trans.) Meltemi. ↩︎
  4. Rahma Nur insegna da più di trent’anni nel plesso G. Martinelli (Castagnetta) dell’Istituto Comprensivo Fabrizio De André di Pomezia. ↩︎

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