Dal fosfato ai giardini di sabbia
La storia del popolo Saharawi nel documentario di Mohamed Sleiman Labat

“Siamo come formiche. E le formiche raccolgono semi da questa e quella pianta, e da questa e quella pianta…”. Il popolo Saharawi descrive così il proprio modo di vivere e la relazione con il proprio territorio, il Sahara occidentale. Il regista Mohamed Sleiman Labat è nato lì. E su questa relazione riflette il suo documentario Desert PHOSfate1 (2023), a partire dalla crasi del titolo tra phosphate, “fosfato”, e fate, “destino”. Quanto impatta la Storia, con la s maiuscola, sulla vita di un popolo? E quanto la micro-storia di un popolo può cambiare le sorti di quella stessa Storia?
Tre capitoli, nessun raccordo apparente: il documentario di Sleiman Labat ha il ritmo di una tempesta di sabbia, si innalza e si abbassa col vento che incide su ogni granello e lo modifica costantemente. Al centro, il minuto di blackout che mostra cosa succede quando devi affrontare temperature superiori a 50 gradi. Prima e dopo, la descrizione dei ritmi del deserto attraverso movimenti, voci, suoni, in cui un popolo si racconta e racconta i propri cambiamenti: da nomade a profugo e adesso agricoltore, per uscire dalla “maledizione” del fosfato attraverso la creazione di giardini di sabbia.
Chi sono i Saharawi? E qual è la loro storia?
I Saharawi sono le comunità indigene nomadi originarie del Sahara occidentale, un territorio dell’Africa nord-occidentale situato tra Mauritania, Marocco e Algeria, di fronte alle Isole Canarie. Parlano l’Hassanya, una lingua orale che deriva dall’arabo e dall’amazigh2. Una parte del popolo Saharawi vive nel Sahara occidentale e l’altra parte si trova nei campi profughi nel sud dell’Algeria.

Mohamed Sleiman Labat è un artista visivo, regista e scrittore nato e cresciuto nei campi profughi saharawi nel deserto di Hamada, nel sud-ovest dell’Algeria. Qui ha fondato lo spazio di sperimentazione artistica Motif Art Studio, costruito interamente con materiali di scarto, in risposta alle inondazioni distruttive che hanno colpito i campi nel 2015. Il suo lavoro esplora le sfaccettate questioni politiche, ambientali e sociali che riguardano la sua comunità.
Scopri Desert PHOSfate Scopri Motif Art StudioDopo la conferenza di Berlino del 1884, il Sahara occidentale divenne una colonia spagnola per circa un secolo, fino al 1975 quando il ritiro spagnolo coincise con l’invasione del territorio da parte di Mauritania e Marocco, contrastata dal movimento di resistenza Saharawi. Migliaia di persone dovettero fuggire cercare rifugio in Algeria, dove furono costruiti specifici campi profughi saharawi nel deserto di Hamada: qui s’incontrarono i miei genitori e sono nato io. Ho fatto le prime scuole nei campi e l’università in città. Appena terminati gli studi sono tornato nel deserto e ho fondato Motif Art Studio, un piccolo spazio per la creazione e la sperimentazione artistica nel sud-ovest dell’Algeria. Oggi viaggio molto a livello internazionale per le mie mostre e il mio lavoro, ma ritorno sempre lì, per la mia comunità e la mia famiglia.
Perché ha deciso di raccontare la storia del tuo popolo in un documentario?
Vorrei decolonizzare il deserto: è così grande che non credo che riuscirò mai a catturare la sua storia completa ma cerco di raccontare ciò che so, basandomi sul luogo in cui mi trovo. Per chi lo vive, il deserto è tutt’altro che un luogo senza vita, com’è sempre stato ritratto, anche dalla letteratura occidentale. Molti resoconti letterari e terminologie lo descrivono come “terra del nulla, terra di nessuno” e questi termini implicano un territorio apparentemente vuoto, che può essere colonizzato, usato, sfruttato e conquistato…tanto “non appartiene a nessuno”! Ma il deserto svolge un ruolo così importante nell’ecosistema globale che, senza, il mondo non funzionerebbe!
Ogni anno, infatti, le tempeste di sabbia provenienti dal deserto trasportano milioni di tonnellate di polvere ricca di particelle di fosforo. Questa polvere viaggia per migliaia di chilometri per fertilizzare naturalmente foreste e terre lontane.
Le scansioni atmosferiche della NASA mostrano che circa 27 milioni di tonnellate di polvere del Sahara finiscono in Amazzonia, ed è proprio così che l’Amazzonia3 riceve i suoi nutrienti: dalla polvere del Sahara. Possiamo, anzi, dire che l’Amazzonia dipende dal Sahara per sopravvivere.
In DESERT PHOSfate si parla, non a caso, dell’estrazione del fosfato, un minerale essenziale per l’agricoltura di tutto il mondo in quanto viene utilizzato per la produzione di fertilizzanti, e si denuncia lo sfruttamento delle risorse naturali del Sahara Occidentale, in cui si trovano grandi giacimenti di fosfato. Ma non solo: emerge anche la narrazione di qualcosa di nuovo che, nel piccolo, sta nascendo e che potrebbe avere un impatto su larga scala. Cosa è accaduto? E cosa sta cambiando?
L’estrazione del fosfato, prima da parte degli spagnoli e poi dei marocchini, è stata la causa dell’allontanamento del popolo Saharawi dalla sua terra d’origine. Le diverse occupazioni coloniali sono arrivate nel Sahara occidentale principalmente per i giacimenti di fosfato e altre ricchezze. Il Marocco ha anche costruito un muro di sabbia di 2700 km, noto come Muro della vergogna4, intorno a questi giacimenti redditizi, portando all’espulsione delle comunità nomadi Saharawi dal proprio territorio e dividendo in due il Sahara occidentale e i suoi abitanti. Sulaiman Labat, mio padre, racconta nel documentario i suoi primi ricordi d’infanzia di quando camminava in quell’area: ha assistito in prima persona a gran parte di quella storia.
L’estrazione del fosfato avviene ancora oggi: viene spedito in varie parti del mondo per essere utilizzato nelle industrie agricole. Questo avviene senza il consenso del popolo Saharawi che, proprietario della terra, è sfollato nei campi profughi e dipende dagli aiuti alimentari internazionali. È un enorme paradosso. L’elemento sorprendente, però, è che i Saharawi stanno iniziando a coltivare senza il fosforo processato, utilizzando materiali, conoscenze e fonti locali di base.
E quali sono le nuove pratiche agricole e di giardinaggio che stanno nascendo?
Le famiglie Saharawi nei campi profughi stanno creando orti su piccola scala e l’ingegnere agricolo saharawi Taleb Brahim è la figura di spicco nello sviluppo di questi orti. Gli orti sono sparsi in tutti i campi e variano anche nelle dimensioni, da un paio di metri a decine di metri. Taleb Brahim e il suo team dell’Algaada Center for Small Scale Farming Research5 stanno lavorando per sviluppare diverse soluzioni per gli ostacoli fisici che si presentano negli orti. L’ultimo modello di coltivazione adottato è quello dei giardini sandoponici, o giardini di sabbia: un modello che utilizza la sabbia come substrato di coltivazione, progettato per aiutare a preservare enormi quantità d’acqua. La sabbia è contenuta in una pellicola di plastica per evitare che il deserto sabbioso assorba l’acqua e il sistema è dotato di un drenaggio che aiuta l’acqua a gocciolare all’esterno in un secchio per essere raccolta e risucchiata, come in un sistema circolare. Non perdiamo né acqua né nutrienti. E con gli orti sandoponici si possono avere verdura e frutta fresca.
Nel documentario parli anche di un ritmo tutto particolare con cui si coltiva, si cammina e si interagisce nel deserto. Qual è?
Per decolonizzare non solo il deserto ma la mia stessa metodologia di realizzazione del film, ho basato i suo capitoli su alcuni ritmi che ho osservato nella vita quotidiana del popolo Saharawi. Tutto avviene qui a un ritmo più lento, o meglio a ritmi illogici che sembrano corrispondere al ritmo della vita nel deserto. C’è il ritmo con cui i cammelli camminano o con cui le persone eseguono la cerimonia del tè. Il più interessante, per me, da scoprire è stato il ritmo con cui gli anziani parlano e conversano. Sembra che si prendano il loro tempo per comunicare, che si ripetano e che condividano in parte le storie che raccontano. È illogico ma poetico. Le narrazioni orali del popolo Saharawi sono, inoltre, ricche di saggezza ed espressioni profonde. Hanno una grande capacità di riassumere esperienze potenti in espressioni semplici ma profonde. Mi ha colpito, ad esempio, il modo in cui Menaha Mahmud, uno dei personaggi del film, mi ha parlato del rapporto tra il nomadismo e la terra o l’ambiente circostante: per i Saharawi l’essere nomadi ha rappresentato un modo di vivere “sostenibile”, grazie al quale connettersi con la terra e celebrarla, senza sfruttarla come nella visione colonialista. Per dirlo, però, non ha mai usato la parola “sostenibilità” o una qualsiasi terminologia del discorso ambientale, bensì ha fatto questa incredibile analogia: il popolo Saharawi è come le formiche che raccolgono il loro cibo da fonti piccole e limitate, prendendo solo quel che serve.
L’essere nomadi ha portato, quindi, una relazione particolare con lo spazio-deserto. In che senso?
Grazie alle mie ricerche, sto ripercorrendo la vita nomade dei Saharawi: quando i nomadi si spostavano da un luogo all’altro, creavano ricordi e celebravano quei luoghi e quei paesaggi in poesie e racconti. Nel tempo il rapporto con il paesaggio è diventato così forte da aver iniziato a umanizzarne le caratteristiche e diversi paesaggi e caratteristiche geografiche hanno preso il nome da parti del corpo umano. Un tempo i Saharawi chiamavano certe terre “testa”, “bocca”, “costole”, “gambe”, “occhi”, “schiena”, “piedi”. Umanizzando un paesaggio apparentemente duro, lo trattavano come un essere vivente. Questo è ancora oggi un modo molto umano di rapportarsi alla terra, che non mira solo a sfruttarla e a usarla, ma vuole solo farne parte, viverci e tornarci quando muore. Letteralmente Madre Terra.
Pensi che raccontare le storie di vita di un popolo come quello dei Saharawi possa aiutare a cambiare la Storia con la S maiuscola?
Più mi addentro nella storia del mio popolo e più mi rendo conto di quanto sia importante far emergere le storie che lo hanno animato e lo animano.
Le micro-narrazioni hanno il potenziale per sfidare le meta-narrazioni.
Le storie hanno, infatti, il potere di cambiare il corso della Storia. Tutta la cultura umana è il risultato di molti tipi di storie che abbiamo creato e raccontato nel corso dei secoli. Quindi è probabilmente lo strumento più potente che l’umanità abbia mai creato. Non posso affermare che DESERT PHOSfate sia la storia che cambierà il mondo, ma è una storia tra le tante storie non raccontate del deserto che meritano di essere ascoltate.
- Un documentario di 58 minuti, uscito nel 2023 e parte del progetto PHOSfate Artistic Research Project insieme a Pekka Niskanen, media artist finlandese. Il progetto, sovvenzionato dalla Fondazione Kone, riguarda i fosfati e i loro effetti su due ambienti molto diversi: il Mar Baltico e il Sahara occidentale e ha coinvolto i due artisti in una residenza artistica in Finlandia. ↩︎
- L’amazigh raccoglie varietà linguistiche parlate da più di 30 milioni di persone, in varie zone del Nordafrica, dal Marocco alla Libia, dal Mali al Niger. Fino a non molto tempo fa l’uso era esclusivamente orale. Nel 2011 è stato istituito, a Rabat, l’Institut Royal de la Culture Amazighe (IRCAM) mentre dal 2003, la lingua è stata integrata nei programmi scolastici delle scuole a livello nazionale. Cfr. Mountassir, A. E., (2017). Metodo di tachelhit. Lingua amazigh (berbera) del sud del Marocco. ↩︎
- Yu, H., Chin, M., Yuan, T., Bian, H., Remer, L. A., Prospero, J. M., Omar, A., Winker, D. M., Yang, Y., Zhang, Y., Zhang, Z., & Zhao, C. (2015). The fertilizing role of African dust in the Amazon rainforest: A first multiyear assessment based on data from Cloud‐Aerosol Lidar and Infrared Pathfinder Satellite Observations. In Geophysical Research Letters, 42(6), 1984–1991. https://doi.org/10.1002/2015gl063040. ↩︎
- Tra il 1980 e il 1987 il Marocco ha deciso di costruire dei muri difensivi per circoscrivere le zone economicamente più importanti per poi saldare tra loro i diversi baluardi difensivi fino a formare un unico muro che ora è una struttura difensiva fatta di bunker, fossati, reticolati e mine antiuomo. ↩︎
- https://www.algaadacentre.com/. ↩︎