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Intervista

Di cosa sono fatte le città?

Il rapporto tra materiali e visioni del mondo dall’esperienza di Giulia Bellinetti

Riccardo Silvi
una storia scritta da
Riccardo Silvi
 
 
Di cosa sono fatte le città?

Costruire nuove relazioni con i materiali e le storie che ci raccontano. Ecco come Giulia Bellinetti va “oltre” la “fossil culture”.

Che cosa succede quando scegliamo un determinato materiale per costruire, inventare o contenere qualcosa? Un oggetto quotidiano, un’opera d’arte, un edificio o una città intera? Non è mai una scelta neutrale: può raccontare il nostro rapporto con il pianeta, può esprimere la nostra posizione su tema storico o sociale e addirittura può descrivere il modello economico che crediamo migliore. 

Giulia Bellinetti, oltre al ruolo di Head of Nature Research Department e Coordinator Future Materials alla Jan Van Eyck Academie, è Phd Candidate in Environmental Humanities all’università di Amsterdam ed è stata coordinatrice del dipartimento di produzione presso il M HKA, il Museo di Arte Contemporanea di Anversa.

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«I materiali sono contenitori generosi con molte dimensioni, storie e punti di vista che ci permettono di leggere la realtà»  afferma Giulia Bellinetti, coordinatrice del Nature Research department & Future Materials Lab alla Jan van Eyck Academie di Maastricht (Paesi Bassi). L’abbiamo incontrata, cercando di capire di che cosa è fatta la nostra quotidianità.

Partiamo dall’inizio: di cosa si occupa e come?

In questo momento mi trovo ad “indossare diversi cappelli”: in sintesi, sto cercando di mettere in discussione una visione romantica della natura per indagare la stratificazione degli ecosistemi e i rapporti fra gli interventi umani, che modificano un paesaggio, e la selvaticità degli elementi naturali, che interagiscono con questi cambiamenti.

All’interno della Jan van Eyck Academie, a Maastricht, sono la coordinatrice del “Nature Research department” che si occupa specificatamente di aiutare e sostenere le ricerche di artisti in residenza, designer, ricercatori e più in generale  “pensatori” sulla relazione fra le loro pratiche artistiche e l’ecosistema che ci circonda. Non natura, appunto, ma un contesto più ambiguo e ambivalente come quello di ecosistema.

Sempre all’interno dell’accademia, coordino il “Future Materials“: uno spazio, fisico e digitale, che spinge artisti e designer a ripensare le pratiche creative rispetto ai materiali che utilizzano nelle proprie produzioni. Un lavoro che non può limitarsi ad un modello “lineare” di sviluppo, in cui un poliestere viene sostituito da una fibra vegetale. L’idea alla base di Future Materials è che sia necessario riflettere sulla natura stessa dei materiali, sulle implicazioni che i nostri paradigmi di produzione e consumo hanno sul cambiamento climatico.

C’è poi un piano di riflessione più ampio e profondo che porta le produzioni artistiche a interrogarsi su quali significati e narrazioni attiva un materiale nella costruzione di un’opera. I materiali contengono storie ed è importante riflettere su ciò che ci circonda per capire i meccanismi e le dinamiche di cui facciamo parte come ecosistema. Con il “Future material program” stimoliamo gli artisti a guardarsi intorno ed immaginare cosa potrebbe essere un materiale alternativo. Qualsiasi transizione sostenibile parte da qui.

Perché un’accademia artistica è così impegnata sui temi della transizione ecologica? Cosa c’entra l’arte con il cambiamento climatico?

L’arte ha sempre avuto un ruolo nell’aprire e stimolare nuovi scenari e contesti che, nella quotidianità, non noteremmo. La Jan van Eyck Academie ha legato la sua missione di residenza di artista agli obiettivi del Intergovernmental Panel on Climate Change1 per contrastare il cambiamento climatico.

Perché? Credo che in questo momento storico, caratterizzato da sfide sociali, ambientali e geopolitiche così determinanti, l’arte sia chiamata ancora di più a dare il proprio contributo, non solo in un senso figurativo ma ad un livello molto più concreto, direi appunto “materiale”, per contribuire a un cambiamento effettivo. L’accademia già nel 2020 ha scelto di allineare la propria timeline di sviluppo del policy plan2 al 2030, rinnovato lo scorso marzo 2024, interrogandosi sul funzionamento stesso dell’organizzazione nel contesto più ampio del cambiamento climatico dove gli artisti si trovano ad operare.  Uno dei modi più profondi con cui riflette sulla relazione fra transizione ecologica e pratiche artistiche è attraverso i materiali.

E come si attua questo contributo effettivo?

Una delle cose che ho notato negli ultimi tempi è la fortissima accelerazione nell’interdisciplinarità: chimiche, ingegnere, architetti che sono artisti e artiste che lavorano con ricercatori e scienziate sociali e naturali. Nel 2022, per esempio, abbiamo organizzato la prima edizione della “Future Materials Research Fellowships“, con l’obiettivo di sostenere lo sviluppo di materiali sostenibili esistenti- siano naturali o frutto di economia circolare,quindi di riuso e riciclo. Gli artisti selezionati hanno potuto sviluppare la ricerca in laboratori scientifici3, per portare l’idea creativa ad un altro livello: nell’estate 2024 avvieremo la seconda edizione del progetto.

Jesse Adler e i suoi lavori. Fonte: Tom Mannion, Chris Ould. Tutti i diritti riservati. Riprodotti con il consenso degli autori.

C’è inoltre un crescente interesse verso la “Future Material Bank”, la banca dei materiali sostenibili: veniamo contattati sia da artiste e designer in cerca di alternative alle resine sintetiche ma spesso anche da aziende di moda, alla ricerca di nuovi materiali. Non è, però, tutto così semplice. Ho sperimentato personalmente che quando ci si trova ai confini dei nostri ambiti disciplinari, radicati nei nostri vocabolari ma in contatto con altre dimensioni del sapere e della cultura, si generano delle tensioni nei termini e nei modi in cui ci poniamo le domande.

Quindi quando parliamo di materiale e “future material”, con cosa abbiamo a che fare?

Qui ci riferiamo al concetto di “materiale” come a qualcosa di tangibile, necessario a realizzare, non statico ma in divenire. Questo perché c’è sempre un rapporto fra la materia, noi e gli ecosistemi. I materiali cambiano con il tempo, nella sostanza, nel colore, nella flessibilità. Non sappiamo come si evolveranno poiché sono in un flusso continuo di cambiamento, attraverso l’interazione con le intenzioni umane, l’atmosfera e i microrganismi. Prendiamo per esempio la “Japanese Knotweed”4, che fa parte della nostra “material bank”5: in Europa è considerata una pianta invasiva e pericolosa, una specie aliena, e lo è, mentre  in Cina è utilizzata per le sue proprietà medicali. È arrivata nell’800 in Inghilterra, importata dalla famiglia reale, poi donata a famiglie commercianti facoltose europee, trovando quindi uno sbilanciamento ecologico che le ha permesso di svilupparsi rapidamente. È un materiale che porta con sé una storia di colonialismo, di imperialismo e di migrazione. Con una funzione estetica legata al potere che diventa, oggi, un problema ecosistemico. 

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Quanto conosciamo dei materiali con cui abbiamo a che fare?

Poco,  in particolar modo non conosciamo gli elementi che li compongono. Un pigmento sintetico, per esempio, contiene microplastica che finisce nell’ambiente ogni volta che laviamo la superficie che lo contiene. È un tema molto importante: gli artisti investigano e aprono scenari con il loro lavoro sul cambiamento climatico, usando materiali che, di fatto, lo incentivano. In accademia usiamo il concetto e “Ecologically conscious material practice”:

serve automatizzare uno sguardo critico nei confronti dei materiali che ci circondano e creare un riflesso implicito per domandarci che significati aggiunge questo materiale alla mia opera d’arte, oltre alle sue proprietà tecniche ed estetiche

Come possiamo portare questa riflessione nelle nostre comunità e nella costruzione delle nostre città?

È fondamentale capire il rapporto ecologico attorno al materiale che si sceglie di utilizzare, domandarsi cosa succede nella seconda fase di vita del progetto. C’è stata, in questo ultimo periodo, una transizione attorno al discorso dei materiali, un passaggio dal concetto di “mantenere le cose come sono” al tema della rigenerazione: usare materiali non solo per i benefici legati al presente ma anche per i contributi rigenerativi futuri. E se pensassimo a città fatte di materiali che quando si decompongono nutrono il terreno anziché rilasciare sostanze tossiche? Dobbiamo ripensare ai paradigmi economici, prendendo come modello “l’Economia della ciambella”6.

Di che si tratta?

È un concetto introdotto dalla economista inglese Kate Raworth7 secondo cui la crescita, in primis quella economica, ha dei limiti, che sono i limiti del pianeta: questa è la circonferenza più ampia della ciambella. La circonferenza interna rappresenta invece il livello minimo di benessere necessario per vivere come comunità. Il nostro compito è posizionarsi nella fascia intermedia, nella ciambella, appunto. Il lavoro sui materiali va in questa direzione, con l’intento di incidere sul valore ambientale e sociale. Un esempio che può ben spiegare questo approccio è “Color Amazonia”, un progetto legato al processo di produzione di pigmenti da determinate piante attraverso la conservazione delle conoscenza artigianali delle comunità dell’amazzonia colombiana che a loro volta innescano un processo di preservazione dell’ecosistema in cui vivono, in un flusso di relazione virtuosa e circolare.

Torniamo quindi ad un tema che in Mangrovia affrontiamo spesso: l’economia generativa

Di più. Noi parliamo di “beyond fossil culture”. La “fossil culture” è un tema introdotto dalla ricercatrice Stephanie LeMenager8 per cui «il petrolio stesso è un mezzo che sostiene fondamentalmente tutte le forme mediatiche moderne che si occupano di ciò che conta come cultura, dai film alla musica registrata, ai romanzi, alle riviste, alle fotografie, allo sport e ai wiki, ai blog e alla videografia di Internet. Si possono citare molte altre forme culturali in debito con il petrolio». La cultura è fortemente radicata su combustibili fossili e di conseguenza lo sono i nostri oggetti. Per questo dobbiamo sviluppare una cultura “oltre”, dal design di una mostra a come costruiamo le nostre città.


  1. IPCC — Intergovernmental Panel on Climate Change. https://www.ipcc.ch/. ↩︎
  2. Beleidsplan – Jan van Eyck Academie. In Jan van Eyck Academie. https://janvaneyck.nl/pages/policy-plan. ↩︎
  3. Con il Brightlands Chemelot Campus Labs CHIIL e la Central Saint Martins College of Arts and Design di Londra. ↩︎
  4. L’areale originario di questa specie è l’Estremo Oriente russo, la Cina e l’Asia orientale. È una geofita perenne o rizomatosa e cresce principalmente nel bioma temperato. Cfr. Reynoutria japonica Houtt. In Plants of the World Online | Kew Science. https://powo.science.kew.org/taxon/urn:lsid:ipni.org:names:435655-1. ↩︎
  5. Asad, A. A. (2024). Future Materials Encounter #16: Japanese Knotweed. In Jan van Eyck Academie. https://www.janvaneyck.nl/news/future-materials-encounter-16-japanese-knotweed. ↩︎
  6. Raworth, K. (2017). L’economia della ciambella. Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo. https://www.edizioniambiente.it/catalogo/l-economia-della-ciambella. ↩︎
  7. Kate Raworth è un’economista che si occupa di rendere l’economia adatta alle realtà del XXI secolo. È la creatrice della Doughnut of social and planetary boundaries e cofondatrice del Doughnut Economics Action Lab. ↩︎
  8. Stephanie LeMenager è ricercatrice e docente di Inglese e Studi Ambientali all’Università dell’Oregon. ↩︎

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