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I fantasmi del Sahel

Incroci di sguardi su un’etichetta occidentale

Josephine Condemi
una storia scritta da
Josephine Condemi
 
 
I fantasmi del Sahel

Esistono un Sahel geografico, un Sahel storico, un Sahel culturale, un Sahel geopolitico: quattro dimensioni che si incrociano tra loro, in un gioco di proiezioni che alimenta fantasmi

Come si misura il confine col deserto, a nord, e la savana, a sud? La zona che, a partire dal 1900, è stata chiamata Sahel, sta nel mezzo. Il Sahel, dall’arabo Sahil, che significa “costa”, “bordo”, “riva”, è una frontiera mobile, non solo perché il Sahara continua a espandersi verso sud1, ma perché più di altre vive delle reciproche proiezioni tra i popoli che la abitano e quelli che la osservano, la immaginano e ne sono a propria volta immaginati, tra violenza e desiderio.

Che cos’è e com’è nato il Sahel

Sulla cartina geografica, il Sahel è una striscia lunga 8500 chilometri e larga quasi 6 milioni di chilometri quadrati che attraversa da ovest a est, dall’Oceano Atlantico al Mar Rosso, tutti gli odierni Stati africani che confinano a nord con il deserto del Sahara: Gambia, Senegal, Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger, Nigeria, Camerun, Ciad, Sudan, Sud Sudan, Eritrea.

Ma fino al 1900 non c’era alcun legame tra quest’area e il nome con cui la conosciamo oggi: lo ha dimostrato l’antropologo Jean-Loup Amselle nella sua ultima opera, L’invenzione del Sahel (2022), tappa di un percorso ultradecennale di decostruzione delle categorie con cui ci rivolgiamo all’Africa2 e quindi con cui rappresentiamo il mondo.

“Il Sahel, in termini geografici ed etnico-religiosi, è una categoria che si sviluppa esclusivamente nel contesto coloniale francese” scrive Amselle. In particolare, il termine è stato usato per la prima volta dal botanico Auguste Chevalier, in missione in Sudan nel biennio 1899-1900, per designare una “vegetazione saheliana” dipendente dalla piovosità3, e negli anni successivi in diversi testi di esplorazione geografica ed etnografica. Da allora, scrive Amselle, “il Sahel fu separato dal Sahara, sebbene non abbia senso se non in relazione a esso”.

L’antropologo Marco Aime e il giornalista Andrea De Georgio, nel saggio Il grande gioco del Sahel (2021), distinguono tra: un Sahel climatico-ambientale; un Sahel storico, legato ai grandi regni dell’oro (Ghana, Mali, Songhay) e alle carovane che collegavano l’Africa centrale al Mediterraneo e al Medio Oriente; un Sahel culturale, sviluppatosi a partire dagli scambi di queste carovane in una ibridazione tra monoteismo (Islam su tutti) e animismo; il Sahelistan, ovvero le strategie geopolitiche tra il terrorismo jihadista, gli Stati del Sahel e quelli stranieri (Europa, Russia, Cina) in una delle aree più povere al mondo ma ricca di oro, idrocarburi e terre rare. Un’area in cui il 40% della popolazione ha meno di 15 anni e gli over 60 sono il 5%.

Queste quattro dimensioni del Sahel si incrociano tra loro, come dimostra il legame tra l’aumento della desertificazione e delle temperature e l’emigrazione interna e internazionale, a propria volta collegata al traffico di esseri umani e alle strategie di irrigidimento identitario che fanno prosperare i fondamentalismi e rendono il Sahel un luogo carico di fantasmi.

Il fantasma dell’oro

Il Mediterraneo e l’Africa centrale si sono spesso incontrati nel Sahel: nel Medioevo, le quattro rotte principali dal nord a sud del Sahara (e viceversa) venivano utilizzate per trasportare oro, sale, schiavi, pietre preziose. Durante le Crociate, quando era proibito il contatto tra cattolici e musulmani, sono stati gli ebrei a farsi carico dell’intermediazione commerciale tra gli altri due popoli. Se nel deserto tutto si muove, “il potere appartiene a chi controlla il movimento di persone e merci tra le due sponde” scrive Amselle.

Prima, nel 300 d.C. il regno del Ghana, poi gli imperi del Mali e del Songhay sono stati tutti accompagnati dalla fama di ricchezze stupefacenti. Già nel VII secolo, cronisti arabi scrivevano del Ghana come terra dell’oro: nell’atlante catalano del 1375, accanto alla rotta per il paese del Rex Melli, l’attuale Mali, fu inserita la parola “Tombutto” con un disegno del re che mostrava una grande pepita d’oro. Era ancora grande l’eco delle donazioni cospicue in oro elargite durante il percorso per la Mecca dal sultano Musa nel 1325, che avevano fatto crollare il prezzo di mercato del metallo in Egitto. Il mito dell’oro e la ricerca dell’Eldorado africano contribuirono alla fama di Timbuctù, città al centro delle rotte commerciali medievali, oggi patrimonio Unesco, che cadde in declino dopo lo spostamento dei traffici oltre l’Atlantico, il passaggio che è stato definito dagli storici “dalla carovana alla caravella”.

Ancora oggi, molti paesi del Sahel sono tra i maggiori esportatori di oro al mondo: la classifica 2023 per volumi 2022 del World Gold Council4 mostra il Ghana al sesto posto, il Mali all’undicesimo, il Burkina Faso al dodicesimo e il Sudan al sedicesimo.  Secondo il report Gold at the crossroads5 dell’OCSE (2018), in Mali, Burkina Faso e Niger l’industria estrattiva pesa tra il 62 e il 65% delle esportazioni e il 16-17% del PIL di ciascuno Stato ma solo lo 0,22% sull’occupazione locale. Nel 2012, la scoperta di un giacimento molto produttivo nel Nord Darfur sudanese ha rilanciato l’estrazione artigianale e fatto arrivare oltre 100.000 cercatori d’oro solo in quella zona.

L’estrazione “artigianale”, ovvero non autorizzata, vede impegnati attori parastatali nel controllo delle miniere, dei lavoratori e delle lavoratrici nonché dei profitti, usati per finanziare e riciclare proventi di organizzazioni armate come i gruppi jihadisti o i mercenari del gruppo paramilitare russo Wagner.  Secondo un report dell’International Crisis Group6 (2019), oltre il 50% della produzione aurifera non è regolamentata: la stima è tra le 20 e le 50 tonnellate in Mali, tra le 10 e le 30 in Burkina Faso, tra le 10 e le 15 in Niger, per un valore complessivo stimato tra 1,9 e 4,5 miliardi di dollari.

Dal 2020, Mali, Niger e Burkina Faso sono stati interessati da diversi colpi di Stato militari che ne hanno causato la sospensione dall’ECOWAS, la Comunità economica dei paesi dell’Africa Occidentale, un cui sottogruppo è l’UEMOA, l’Unione Economica e Monetaria dell’Africa Occidentale basata sul franco cfa (dal 2020 Eco7) come moneta comune. A gennaio 2024, i tre governi militari hanno annunciato l’uscita dall’organizzazione8.

Proprio il fantasma dell’oro sembra essere stata una delle cause più importanti della caduta del regime di Gheddafi in Libia: tonnellate di riserve auree sarebbero state stoccate nel 2011 dalla Libia al Sahel per favorire un progetto di valuta panafricana basata sul dinar libico e alternativa al franco cfa9. Tra i numerosi effetti geopolitici nel Sahel della caduta di Gheddafi, il ritorno dei tuareg assoldati nell’esercito libico in Mali.  

Il fantasma dell’identità

Il caso del Mali, paese grande quattro volte l’Italia, rappresenta per Amselle un esempio di “etnicizzazione del conflitto saheliano”: per l’antropologo, ancora una volta la complessa situazione socio-politica di un paese africano viene ridotta in Occidente alla contrapposizione tra diverse etnie, in questo caso il nord “bianco”, cioè tuareg, il centro “rosso” cioè peul e il sud “nero” cioè mandinka.

Una visione stereotipata ed essenzialista, secondo cui gli uomini berberi vestiti di blu del deserto sono sicuramente meno aderenti al jihad degli arabi e, per questo, sono sempre stati sostenuti nella loro lotta di indipendenza dallo Stato maliano: il tuareg non può essere jihadista anche se, sottolinea Amselle, biografie come quella di Iyad Ag Ghali10 sembrano suggerire il contrario.

In questo schema, i “rossi” peul sono tutti pastori transumanti e dall’ethos particolarmente nobile, esteso non alla sola aristocrazia che originariamente lo esprimeva: “molti peul sono in un certo senso dei ‘falsi peul’, o perché lo sono diventati, o perché non parlano la lingua peul (fulfulde) che si suppone corrisponda al loro etnonimo, o perché sono agricoltori sedentari e non pastori transumanti come vorrebbe lo stereotipo” scrive Amselle. L’insurrezione nel Mali centrale è stata guidata dal jihadista peul Hamadoun Kouffa in polemica con il gruppo peul dominante sul territorio: da allora, l’accostamento peul-jihadismo è quasi automatico. Infine, i “neri” mandinga sono, da stereotipo, tutti contadini sedentari e poco islamizzati, discendenti di Sunjata, il fondatore dell’impero del Mali del 1200.

In sintesi, per questa dottrina geopolitica “la pace al nord dipende dai tuareg, ai quali le autorità di Bamako devono fare notevoli concessioni, mentre la pace al centro dipende dai peul, che oggi, come ai tempi delle grandi jihad peul del XIX secolo, minacciano il blocco etnico ‘mossi’, cioè ‘nero’ e non contaminato dall’Islam” scrive Amselle.

Questa lettura, secondo Amselle, ha indirizzato l’intervento militare francese nell’area negli anni scorsi: dopo l’insurrezione del gennaio 2012 da parte dei guerrieri tuareg uniti nel Movimento nazionale per la liberazione dell’Azawad e alleati con i gruppi jihadisti Ansar Dine e il Movimento per l’unità e la jihad in Africa Occidentale, il governo francese è stato infatti chiamato dal governo maliano per stroncare l’insurrezione. Le operazioni Serval (2013) e Barkhane (2014) in parallelo alla nascita del G5 Sahel per il coordinamento in materia di sicurezza e alle due missioni UE di addestramento dell’esercito locale EUTUM e EUCAP Mali Sahel, non hanno dato i risultati sperati dall’asse franco-maliano.

Tra il 2015 e il 2019 sono scoppiati disordini nel Mali centrale e l’influenza dei ribelli si è estesa sia in Burkina Faso, dove la Francia ha avviato l’operazione Sabre, che in Niger, dove l’UE ha inviato la task force Takuba. Nel biennio 2020-21 il colonnello Assimi Goita, protagonista di due colpi di Stato in due anni, ha convogliato il malcontento antifrancese per consolidare il proprio governo: si è rivolto al gruppo russo paramilitare Wagner per la lotta al terrorismo islamico e ha espulso nel 2022 l’ambasciatore francese nella capitale. Nello stesso anno, il colpo di stato in Burkina Faso e, nel 2023, in Niger hanno fatto ulteriormente precipitare le relazioni con la Francia e, per esteso, l’Europa, fino all’annuncio di uscita dei tre Stati dall’ECOWAS.  

Riflettendo sul successo di registi, scrittori e scrittrici saheliani in Francia, l’antropologo Amselle si chiede se “alla denigrazione che il continente ha subito per decenni si sia sostituita una certa fascinazione quasi sensuale che gli autori africani, spesso passati per le migliori scuole, esercitano sulla scena editoriale, accademica e mediatica francese”.

Individua così alcuni aspetti comuni alle opere letterarie e cinematografiche saheliane di successo in Francia negli ultimi tre decenni: l’etnicizzazione della narrazione, ovvero l’ampio spazio dato a usi e costumi locali; il primitivismo come rimedio alla contemporaneità; l’animismo; l’afrocentrismo e/o l’afrofuturismo, ovvero, rispettivamente, l’idea che tutto venga da e tutto torni a l’Africa; il sufismo, forma moderata di islam come antidoto al fondamentalismo; il femonazionalismo, ovvero proiettare il femminismo occidentale sulle società saheliane; l’omonazionalismo, ovvero imporre i diritti umani e sessuali dall’Occidente a queste stesse società. Il grande rimosso è il jihadismo, considerato come “portato da fuori” anche se presente nell’area già dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.

La violenza è sempre degli altri, sempre fuori di noi. E così i corpi delle persone che partono dal Sahel e cercano di attraversare il deserto per arrivare in Europa continueranno a essere fantasmi.  

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  1. , Dal 1920, la superficie del deserto del Sahara è aumentata del 10%. Per un’analisi dettagliata si veda Thomas, N., & Nigam, S. (2018). Twentieth-Century Climate Change over Africa: Seasonal Hydroclimate Trends and Sahara Desert Expansion, Journal of Climate, 31(9), 3349-3370. https://doi.org/10.1175/JCLI-D-17-0187.1. ↩︎
  2. Si veda, ad esempio, Amselle, J. L., M’Bokolo, E. (2017). L’invenzione dell’etnia, Meltemi. (ed. orig. Au cœur de l’ethnie, La Découverte, 2005). ↩︎
  3. Il “Sahel climatico” designa una zona con precipitazioni che oscillano da 100 nm (nel nord) a 600 nm (nel sud) all’anno. ↩︎
  4. World Gold Council. (2023). Global mine production, https://www.gold.org/goldhub/data/gold-production-by-country. ↩︎
  5. OECD. (2018). Gold at the crossroads Assessment of the supply chains of gold produced in Burkina Faso, Mali and Niger. https://mne,..guidelines.oecd.org/Assessment-of-the-supply-chains-of-gold-produced-in-Burkina-Faso-Mali-Niger.pdf. ↩︎
  6. International Crisis Group. (2022, Settembre 28). Getting a grip on Central Sahel’s gold rush | Crisis Group. https://www.crisisgroup.org/africa/sahel/burkina-faso-mali-niger/reprendre-en-main-la-ruee-vers-lor-au-sahel-central. ↩︎
  7. Afp, L. M. A. (2020, May 21). La France acte officiellement la fin du franc CFA en Afrique de l’Ouest, Le Monde.frhttps://www.lemonde.fr/afrique/article/2020/05/21/la-france-acte-officiellement-la-fin-du-franc-cfa-en-afrique-de-l-ouest_6040339_3212.html. ↩︎
  8. ISPI (2024), Mali, Niger e Burkina Faso: via dall’Ecowas, https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/mali-niger-e-burkina-faso-via-dallecowas-161949 ↩︎
  9. Ballarini G. (2016), Le bombe di Sarkozy sulla moneta africana, https://www.nigrizia.it/notizia/le-bombe-di-sarkozy-sulla-moneta-africana ↩︎
  10. Iyad Ag Ghaly, militante islamista tuareg, nel 1988 ha fondato il Movimento Popolare per la Liberazione dell’Azawad e nel 2012 il gruppo militante islamista Ansar Dine ↩︎

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