La gestione del fiume Mekong è un puzzle geopolitico da cui dipende la sopravvivenza di milioni di persone. Ecco perché la sua acqua è sempre più salata e come un’antologia cinematografica ne offre una visione al 2030
Sulla cartina geografica, il fiume Mekong è una lunga linea che parte dall’altopiano del Tibet e in verticale attraversa sei Paesi: Cina, Birmania, Laos, Thailandia, Cambogia e Vietnam. Ciascun Paese ha il proprio segmento, il proprio pezzetto di questa linea che a volte costituisce un confine naturale, come nel caso di Birmania e Laos e Laos e Thailandia. La linea del fiume tuttavia è continua, come l’acqua che scorre per oltre 4.800 chilometri prima di sfociare nel Mar Cinese Meridionale con un delta di oltre 40.000 chilometri quadrati. Acqua che confluisce da un bacino territoriale di oltre 800.000 chilometri quadrati, quasi tre volte la superficie dell’Italia. Acqua limacciosa, ovvero piena di limo, la sabbia-argilla che la rende torbida ma rende fertili i terreni. Dall’alto, il Mekong è una linea divisa in segmenti. A misura di essere umano, è la fonte di sostentamento di milioni di persone. Che succede se i segmenti prevalgono sulla linea?
Perché l’acqua del Mekong è sempre più salata
«Il Mekong è l’esempio perfetto di un fiume dell’Antropocene, colpito da una serie di disastri naturali e dall’impatto umano»: Edward Park, inserito da Stanford nel 2% degli scienziati più importanti al mondo, è un geomorfologo, cioè si occupa di capire come e perché cambia la forma di un territorio. Studia il Mekong da cinque anni, all’interno del Earth Observatory of Singapore. «Dopo il dottorato, ho capito che gli idrologi e i geomorfologi possono svolgere un lavoro significativo per contribuire alla società attraverso la ricerca applicata» racconta. «Sono americano, ma originario della Corea del Sud e ho sempre avuto questo interesse per l’Asia. Come sapete, soprattutto nel sud-est asiatico, la densità di popolazione, già elevata, è in costante aumento. Quindi, specialmente in questa parte del mondo non c’è fiume che non subisca l’impatto dell’uomo. Il Mekong è un caso emblematico e studiarlo può diventare rilevante su scala globale per progettare una gestione fluviale sostenibile».
Edward Park è geomorfologo. Dopo il dottorato in “Geografia” all’Università del Texas, conseguito nel 2017 con un progetto di ricerca sull’impatto antropico nel Rio delle Amazzoni, ha perfezionato la sua formazione alla Nanyang Technological University (NTU) di Singapore, dove dal 2019 insegna all’interno del National Institute of Education e dal 2021 è ricercatore principale all’Earth Observatory of Singapore. Il programma di ricerca che coordina all’Osservatorio, “Tropical Rivers in the Anthropocene”, indaga i mutamenti della forma e della geologia degli ecosistemi fluviali per ampliare la discussione sulla gestione sostenibile dei grandi fiumi. Nel 2023 è stato insignito del Nanyang Research Award (Young Investigator) per aver contribuito ad ampliare le frontiere della conoscenza ed è stato inserito dall’università di Stanford nel 2% degli scienziati più importanti al mondo.
Le sue pubblicazioni Scopri il Tropical Rivers GroupCon il suo team, Park ha misurato il livello di salinità nel Delta del Mekong, in continuo aumento, anche in relazione alle siccità sempre più frequenti. «L’intensificazione dell’intrusione di salinità dipende da molti fattori, ma ne abbiamo individuati quattro principali» spiega. «La prima è, ovviamente, il cambiamento climatico che determina l’innalzamento del livello del mare che entra nel delta. La seconda sono le dighe, che intrappolano i sedimenti come il limo che dovrebbero continuare a costruire il delta. La terza, comune alla maggior parte dei delta di tutto il mondo, è la subsidenza del terreno, che si abbassa sempre di più a causa dell’agricoltura intensiva: per massimizzare i raccolti si coltiva anche durante la stagione secca estraendo acqua dalle falde. La quarta è l’estrazione della sabbia dal letto del fiume, molto utilizzata nell’industria edile».
Non è immediato capire quante dighe siano oggi attive nel bacino del Mekong. Uno studio recente della Nanyang Technological University, a cui ha partecipato il professor Park, ha integrato i maggiori database oggi esistenti e rilasciato i risultati in opensource1: da questa elaborazione risultano 1055 dighe, di cui 661 operative, 54 in costruzione, 331 progettate, 2 chiuse e 7 cancellate. La maggior parte delle dighe operative si trova in Thailandia e nelle valli cinesi del fiume, mentre la maggior pianificazione è prevista in Laos, Cambogia e nella parte cinese più a monte. Secondo lo studio, 608 dighe hanno generato una crescita della capacità idroelettrica da 1242 MW negli anni ’80 a 69.199 MW dopo il 2020.
Il Paese che ha beneficiato di un maggiore aumento di capacità idroelettrica nel decennio 2000-2010 è stata la Cina (+16.854 MW) mentre è il Laos ad avere il maggior numero di dighe pianificate e di cui si prevede la crescita più elevata (+18.223 MW dopo il 2020). Cina e Laos insieme rappresentano oltre l’80% del potenziale totale, che è stimato ad oggi a oltre 1.300.000 MW ma potrebbe crescere fino a oltre 2 milioni di megawatt. Il Laos esporta elettricità verso la Thailandia, la Cambogia, il Vietnam e anche Singapore. L’idroelettrico è l’asset su cui il governo cinese sta puntando per diversificare rispetto al carbone.
Ma le dighe impattano sul corso del fiume in molti modi: impediscono il passaggio dei pesci interrompendo il loro ciclo vitale; bloccano il flusso dei sedimenti come il limo da monte a valle; cambiano la durata, la frequenza e la quantità dei flussi d’acqua in ogni stagione, con impatti importanti sulle colture, su tutte il riso. Secondo il rapporto WWF The Mekong’s Forgotten Fishes2, pubblicato a marzo 2024, il Mekong ospita 899 specie conosciute di pesci di acqua dolce, che lo rendono il terzo al mondo per biodiversità dopo il Rio delle Amazzoni e il Congo, con un 25% dei pesci che non si trova in nessun altro luogo della terra e molte specie non ancora descritte scientificamente. Solo nel 2023 sono state scoperte una particolare specie di pesce gatto e di pesce pietra. Il Mekong è il fiume dei pesci giganti, con specie che superano i 50 chili, e il fiume dei 321 pesci migratori che formano una delle più grandi migrazioni animali del pianeta. Dove vanno, con le dighe?
La “diplomazia dell’acqua” si compone di molti organismi: dal tavolo di cooperazione “Lancang-Mekong”, istituito nel 2016, che riunisce tutti gli Stati attraversati dal fiume; al partenariato Mekong-USA3, inaugurato nel 2020; fino alla Mekong River Commission4, l’organizzazione intergovernativa composta da Cambogia, Laos, Thailandia e Vietnam nata nel 1995 ma la cui storia risale al secondo dopoguerra.
«La governance transfrontaliera dell’acqua è una questione geopolitica molto complessa» commenta Park «Tra le quattro cause di salinizzazione del Mekong, la questione delle dighe è la più complicata da gestire. Sicuramente un maggiore consenso scientifico aiuterebbe» sottolinea.
«Ma se le dighe idroelettriche e il cambiamento climatico sono fenomeni di scala globale, le altre due cause, ovvero l’estrazione della sabbia e la subsidenza del terreno, possono essere affrontate e migliorate efficacemente, se ciascun governo si impegnasse in tal senso».
L’aumento dell’acqua salata implica un adattamento e un cambiamento delle culture che in alcune zone è già in atto: «lungo le province costiere del Mekong sono già iniziate le colture a rotazione» spiega Park «durante la stagione umida si coltiva il riso, durante quella secca la stessa zona diventa un allevamento di pesci». Ma anche questa transizione ha un costo: «Molte persone hanno paura di cambiare ciò che fanno da generazioni» evidenzia Park «Occorre un investimento da parte dei governi per favorire l’istruzione delle persone e dare loro i mezzi per capire e affrontare quello che sta succedendo e che succederà».
Annuncio sponsorizzato
Sponsorizza con noi
Il mosaico di Mekong 2030
«Non c’è più pesce da pescare»: in forme diverse, due dei cinque cortometraggi di cui si compone l’antologia Mekong 2030 danno corpo cinematografico ad uno degli incubi ricorrenti di chi abita lungo il fiume. In Soul River, della regista cambogiana Kulikar Sotho, la scarsità di pesce costringe uno dei due protagonisti a diventare guardia forestale; in The Che Brother, del regista laotiano Anysay Keola, spinge la sorella del protagonista ad abbandonare il vecchio business per abbracciarne uno nuovo. Mekong 2030 raccoglie cinque cortometraggi da cinque Paesi sulle rive del fiume, provando a darne una visione al 2030. La produzione è finita nel 2019, quindi prima della pandemia e della più grave siccità di sempre che ha colpito il delta del Mekong nel 2020. «Sotho ha girato sulla riva di un lago cambogiano, il livello dell’acqua era così basso che ha dovuto aspettare tre mesi in più del previsto» ricorda il produttore Sean Chadwell.
Soul River racconta il viaggio/duello tra un pescatore e una guardia forestale che sperano di vendere illegalmente un reperto archeologico: un’inondazione nove anni prima ha distrutto la comunità e il pescatore e la sua compagna sperano di ricominciare. La Cambogia è uno dei paesi più esposti alle inondazioni del bacino del Mekong e il viaggio tra i tre diventa l’occasione per guardare cosa li muove dentro.
The Che Brother descrive invece i dilemmi di un giovane laotiano appassionato di Che Guevara e chiamato a prendere parte ad una disputa tra il fratello e la sorella sul sangue dell’anziana madre, venduto per produrre un vaccino efficace contro un’epidemia non identificata ma da cui è necessario proteggersi indossando maschere.
The Forgotten Voices of the Mekong del regista birmano Sai Naw Kham gira attorno alla contrapposizione, in un piccolo villaggio dello Shan State, tra il giovane politico locale che vende la concessione per lo sfruttamento di una miniera aurifera e l’anziana nonna che mantiene un rapporto differente con la natura. «Nella prima stesura della sceneggiatura il protagonista avrebbe dovuto essere un giovane uomo ma poi quando siamo arrivati lì, abbiamo incontrato questa signora che portava i costumi tradizionali, siamo stati senza elettricità a guardare le stelle, e il ruolo della nonna è cresciuto di conseguenza» racconta il regista.
Sai Naw Kham è un regista birmano. Nato nello Stato Shan, nel nord del Myanmar, lo ha spesso raccontato nelle sue opere. Ha esordito alla regia nel 2014 con “The Crocodile Creek”, premio come miglior documentario al Myanmar Climate Change Film Festival 2017. Sono seguiti “32 Souls” (2015), “The forgotten voices of the Mekong” come parte dell’antologia “Mekong 2030” (2020), “Song of Souls” (2023), premio come miglior documentario internazionale al Dokumenter Film Festival in Indonesia. Attualmente sta lavorando al suo primo lungometraggio “Mangoes are Tasty There”, basato sull’impatto delle guerre civili in Myanmar.
Tutti gli attori e le attrici non sono professionisti ma persone del luogo. «Il cortometraggio è un misto di realtà e finzione» spiega «Le concessioni per l’estrazione aurifera dopo il golpe del 2021 sono aumentate e sono legate ai militari, per cui la gente del luogo non può fare molto. Si può solo denunciare e fare sentire la propria voce». Che cos’è per lei il Mekong? «È una linea di confine tra Myammar, Thailandia e Laos. Una linea che collega, un ponte a livello economico e culturale: le persone che vivono intorno al fiume sono molto vicine».
Anche la regista thailandese Anocha Suwichakornpong si è soffermata su The Line, la linea di confine tra arte e realtà in cui possono convergere diverse forme di conoscenza: il cortometraggio racconta i preparativi di una giovane artista per l’allestimento di una mostra sui cambiamenti del delta del Mekong attraverso una narrazione che fa emergere l’animismo thai. «L’immagine finale del tostapane è geniale, nessuno ci avrebbe mai pensato in un film sull’ecologia, eppure funziona» ricorda Chadwell.
In Unseen River del regista vietnamita Pham Ngoc Lan, una donna incontra il suo antico amante vicino la centrale idroelettrica mentre un giovane va con la propria compagna in un tempio alla ricerca di una cura per la propria insonnia: il fiume invisibile è il tempo?
Sean Chadwell è molto interessato a capire di cosa si parla quando si parla di autenticità. Dopo un dottorato in “Lingua e letteratura inglese” alla Texas A&M University, dove ha insegnato per dieci anni, si è trasferito in Cina e poi in Laos. Nel 2014 ha iniziato a collaborare come volontario con il Luang Prabang Film Festival, ora Blue Chair e nel 2019 ne è diventato direttore esecutivo. In questa veste ha supervisionato il completamento dell’antologia “Mekong 2030”, ha portato il sostegno al Lao Filmmakers Fund nel triennio 2020-2023 a livelli senza precedenti e ha prodotto i festival del 2020 (online) e del 2022 (dal vivo).
Scopri il Blue Chair Festival«Questo corto ha fatto incetta di premi, è stato nominato anche al Sundance Shorts Festival, eravamo molto orgogliosi di essere lì» commenta Chadwell. «Penso che con questa antologia siamo riusciti a mostrare la ricchezza della diversità culturale lungo il fiume: non c’è distanza tra le persone e l’acqua, è tutto legato insieme».
Il progetto, nato su impulso delle Open Society Foundations, è stato finanziato da The Asia Foundation, Oxfam, Mekong River Commission e la Heinrich Boll Stiftung. «Abbiamo indetto un bando e scelto le cinque proposte che ci sono parse più convincenti» racconta Chadwell. «All’inizio del 2019 abbiamo fatto un incontro tra i cinque registi e referenti di Oxfam e della Mekong Commission per approfondire le diverse caratteristiche del fiume. Non avevo mai prodotto niente di corale, ho imparato molto da questa esperienza. Il prossimo anno saremo a metà strada tra il 2020 e il 2030. L’idea iniziale è stata: guardiamo al futuro, tra dieci anni. Adesso voglio davvero giocare con quell’idea, mettere di nuovo il film di fronte ad altre persone e chiedere: ti sembra che siano passati cinque anni e siano stati fatti progressi?».
La storia di cui parla questo articolo è stata individuata utilizzando un tool di intelligenza artificiale, Asimov, sviluppato da ASC 27 appositamente per Mangrovia. Il tool ci ha aiutato a scoprire la storia, ma il resto del contenuto che leggi e vedi è il risultato di processi creativi e sensibilità umane, e non è in alcun modo generato dall’intelligenza artificiale. Ecco perché usiamo l’intelligenza Artificiale in redazione!
- Sullo studio della Nanyang Technological University pubblicato in open source si veda Ang W. J., Park E., Pokhrel Y., Tran D. D., Loc H. H. (2024). Dams in the Mekong: a comprehensive database, spatiotemporal distribution, and hydropower potentials, Earth System Science Data, 16, 1209–1228. https://essd.copernicus.org/articles/16/1209/2024/essd-16-1209-2024.pdf ↩︎
- Per consultare il report del WWF si veda Hughes K. (2024). The Mekong’s forgotten fishes and the emergency recovery plan to save them, WWF International, Gland, Switzerland. https://wwfasia.awsassets.panda.org/downloads/final-mekong-forgotten-fishes-report–web-version-.pdf ↩︎
- Il sito ufficiale https://mekonguspartnership.org/ ↩︎
- Il sito ufficiale https://www.mrcmekong.org/ ↩︎