Francisco Alvarez-Sanchez, per tutti Francis Sancher, è morto. Lo ha trovato la maestra del paese, a faccia in giù nel fango della mangrovia. “Chi l’ha ucciso?” si chiedono a Rivière au Sel, nell’isola di Guadalupa (Antille-Caraibi), dove Sanchez-Sancher si era trasferito nell’ultima fase della propria vita. Per portare guai, secondo molti. Niente sangue sul corpo: il medico nell’autopsia ha sentenziato che è stato un aneurisma. Quel che resta di Sancher può tornare a casa. E la veglia funebre può iniziare.
Maryse Condé (1937), è una scrittrice, critica e drammaturga. Nata in Guadalupa, a 18 anni è emigrata in Francia per motivi di studio. Dal 1960 al 72 ha vissuto in Ghana e Senegal, poi è tornata a Parigi dove ha completato gli studi alla Sorbona. Professoressa emerita di “Letteratura francese e francofona” alla Columbia University, ha insegnato alla Sorbona e a Berkeley. Nel 2018 ha ricevuto il premio Nobel “alternativo” per la letteratura. Presiede il “Comité pour la mémoire de l’esclavage” e nel 2020 ha ricevuto la Legione d’Onore.
La traversata della Mangrovia di Maryse Condé nei 35 anni dalla pubblicazione1 non ha perso un briciolo della propria attualità: anzi, forse è ancora più necessario oggi, in tempi in cui si stanno rafforzando le ideologie di purezza identitaria, che nell’Europa della caduta del muro di Berlino e delle profezie di “fine della storia2”.
Le relazioni come radici della mangrovia
Chi era Sanchez-Sancher? La notte della veglia funebre è la resa dei conti interiore per molti: si susseguono venti monologhi interiori per altrettanti racconti di relazioni che incrociano relazioni, come le radici di una mangrovia. “Sans-cher”, il “senza cari”, lo sradicato, lo straniero, ha lasciato un segno profondo nelle persone che ha incontrato: ciascuna ne consegna un ritratto, in soggettiva, che emerge a propria volta, per analogia o differenza, dall’insieme di conoscenze che l’intera piccola comunità ha sentito, elaborato, inventato nel corso degli anni, sottoforma di passaparola o pettegolezzo. Sancher il cubano, il colombiano, il frocio, lo stupratore, il perdigiorno, lo scrittore, l’ubriacone, il medico, il paranoico, il sognatore: “la fantasia popolare imbroglia le carte. Trasforma gli uomini, li sbianca, li annerisce al punto che una madre non saprebbe riconoscere il figlio che ha partorito” (77).
Ma chi racconta di qualcun altro racconta sempre anche di sé: ascoltiamo i pensieri di persone tra loro diverse per genere, censo, colore della pelle, a cui spesso corrispondono altrettante differenze di potere e privilegio. Moïse il postino, soprannominato Maringoin-zanzara; Mira l’orfana di madre; il suo fratellastro Aristide; la medium Man Sonson; l’adolescente Joby; l’anziana Dinah; Sonny dal “campionario di canzoni in testa” (68); il vivaista Loulou; l’allevatore Sylvestre Ramsaran; la maestra Lèocadie Timothée; il cantastorie Cyrille; Rosa la madre di Wilma; l’innamorato Carmélien; Vilma la promessa sposa; l’haitiano Désinor; la signora Dodose Pélagie; Lucien Évariste lo scrittore che non scrive; Émile Étienne, lo storico che raccoglie memorie; Xantippe che vive nei boschi: tutti cercano qualcosa o qualcuno.
Ciascuna voce si mostra nel proprio percorso di vita e così facendo getta nuova luce (e ombra) in quelli altrui. Seguire ciascun flusso di coscienza equivale a immergersi in profondità nelle logiche, nei desideri e nei rimpianti di mondi chiamati a convivere e spesso confliggere in spazi ristretti: mondi che lo straniero Sancher ha messo ancora più in tensione, perché “Soltanto chi è vissuto fra le quattro mura di una piccola comunità sa quanto possa essere cattiva e quanta paura abbia degli stranieri” (27).
Di queste tensioni vive un romanzo che non spiega nulla ma mostra molto, lontano dalle idealizzazioni armoniche e romantiche che spesso contraddistinguono lo sguardo di chi cerca nelle piccole comunità ritorni a “età dell’oro” mai vissute: uno sguardo esotizzante, che contribuisce al gioco di aspettative da confermare o sovvertire da parte della comunità stessa, al copione con cui si rappresenta, alla costruzione di quell’ “abito logoro e troppo stretto intorno alle ascelle, che si infilavano addosso ogni mattina” (153).
La traversata impossibile
La traversata della mangrovia prende il titolo dall’omonimo romanzo che Sancher stava cercando, con scarsi risultati, di scrivere. “Non è possibile attraversare la mangrovia. Ti infilzi nelle radici aeree degli alberi. Sprofondi e soffochi nel fango salmastro” (117) aveva replicato Vilma preoccupata e lui aveva annuito, prima di morire a faccia in giù nel mezzo della foresta.
Sancher è ossessionato dalla propria genealogia, crede di dover spezzare una maledizione che risale a quando il proprio antenato scappò dalla Francia per rifugiarsi in Guadalupa dopo aver commesso una serie di crimini. Cerca di “sbrogliare la matassa della vita” (105) aspettando la morte lì dove, secondo lui, tutto è iniziato. Ma in una mangrovia non c’è corrispondenza tra alberi e radici: non solo perché, nel groviglio, è difficile stabilire a quale albero appartenga ciascuna radice, ma perché ciascun ramo può gettare nuove radici ed è quindi difficile stabilire cosa venga prima e cosa dopo3. Non si può risalire per li rami4, non si può tracciare alcun albero genealogico e quindi nessuna pretesa di autenticità dovuta ad una qualche “fondazione” o stirpe lontana nel tempo.
Guadalupa è un arcipelago di isole a sud del mar dei Caraibi. Il nome Guadalupa fu dato da Cristoforo Colombo nel 1493: prima i Caribi, che avevano a loro volta cacciato gli Arawak, la chiamavano Karukera, “l’isola dalle belle acque”. Colonia francese dal 1635 (e fino al 2014), proprietà della corona dal 1674, Guadalupe accolse per secoli migliaia di persone nere schiavizzate nelle piantagioni di zucchero e cacao. La schiavitù venne proibita nel 1816 e dal 1871 l’isola ha una rappresentanza nel Parlamento francese. Nel 1946 il deputato martinicano Aimé Cesaire, fondatore del movimento della negritudine, propose la legge che trasformò le vecchie colonie in Dipartimenti e Comunità d’Oltremare.
Il fango della mangrovia è viscoso: il confine tra solido e liquido viene compromesso, c’è il rischio di perdersi, di perdere la forma con cui ci si de-finiva in precedenza, di restare assorbiti5. Il terrore che emerge dalle parole di Vilma è lo stesso di chi si avvicina a qualcosa che sa di non riuscire a dominare, controllare per intero, e da cui potenzialmente può venire cambiato, quando non stravolto. Il terrore di chi si aggrappa all’ “abito logoro” per paura di evolvere, per paura di ammettere che quello che siamo non emerge che dalle nostre relazioni, su cui è impossibile pronunciare una parola definitiva. Il fango della mangrovia, albero che vive tra due mondi, rigenera e decompone, ricorda che la nostra faccia cambia nel tempo, attraverso le relazioni che viviamo, in modi che non possiamo controllare del tutto e che ciò può essere insieme terrificante e liberatorio.
Che cos’è la creolità?
L’anno precedente a La traversata della mangrovia, era stato pubblicato Solibo Magnifique6 dell’autore martinicano Patrick Chamoiseau: anche qui un uomo, il cantastorie Solibo, muore, e anche qui si avvia la ricerca per capire cosa sia successo dalle parole di altri personaggi, i testimoni della morte durante l’ultima performance. Ma già dalla quarta di copertina viene esplicitato che a uccidere il cantastorie sia stata la modernità: Solibo è quindi il simbolo di una cultura locale pura, autentica, che muore all’impatto con la globalizzazione.
Nel 1989 Chamoiseau, che riceverà il premio Goncourt nel 1992, aveva pubblicato insieme allo scrittore Raphael Confiant e al linguista Jean Bernabé un manifesto della creolità7: “né Europei, né Africani, né Asiatici, ci autoproclamiamo Creoli”. La creolità viene definita una “palude di mangrovie di virtualità”, “un vortice di significati in un unico significante: una Totalità” da risuscitare attraverso la scrittura nella lingua creola. In Éloge de la Créolité esiste una genealogia a cui poter risalire: al contrario, come già evidenziato, in La traversée de la mangrove quest’operazione è impossibile.
Non a caso, Sancher, lo scrittore protagonista in absentia, l’uomo-mangrovia, è impotente, non riesce a scrivere il proprio romanzo. E l’altro scrittore, Lucien Évariste, l’attivista impegnato che non ha mai ancora scritto un libro, nei suoi sogni di gloria immagina di doversi giustificare di fronte ai critici locali per non saper scrivere in creolo. Non a caso, Chamoiseau, primo lettore dell’opera scelto da Condé, ha dichiarato che avrebbe cambiato il titolo in “Tracée dans la mangrove, allo scopo di evocare sia il percorso dello schiavo fuggitivo sia l’atto creolo dell’attraversamento8” e, dal canto proprio, non ha risparmiato commenti sulle note a pié di pagina inserite da Condé per spiegare i termini creoli: “Lasciamo all’eco il compito di raggiungere gli altri; il nostro compito è quello di parlare a noi stessi, per noi stessi, con una autenticità acquisita dall’interno, in virtù della nostra coscienza9”.
Al contrario, per Condé l’imposizione dell’equivalenza tra cultura e lingua creola “implica una nozione di ‘autenticità’ che inevitabilmente comporta esclusione, in quanto l’‘autenticità’ si basa sull’ideologia normativa che per tanto tempo ci ha relegato alla periferia del mondo10”. Condé, fedele al proprio credo per cui il dovere di chi scrive è “far capire alla gente che non tutto è perfetto11” si è dedicata in seguito a ricostruire le etimologie della parola “creolo”: dallo spagnolo criollo, può derivare o da criadillo o da una crasi di criar e colono, sempre con il significato di “istruito” e “non selvaggio”, per indicare prima gli spagnoli nati nelle colonie e poi, dal 1600, anche gli africani nati nelle piantagioni e il loro stile di vita. Mettendo in evidenza come il creolo sia diventato la lingua franca tra padroni e schiavi della Guadalupa solo nel 1800, Condé si chiede: “considereremo autentica la sola produzione degli scrittori che hanno la fortuna di vivere in casa? La cultura creola (ovvero la cultura delle isole caraibiche) non può essere trapiantata e sopravvivere anche grazie all’uso della memoria? In altre parole, non ci sono già nuove e multiple versioni di creolità12?” L’antropologo James Clifford ha scritto, l’anno prima dell’uscita de La Traversée: “In un mondo interconnesso, si è sempre, in varia misura, ‘inautentici’: presi tra certe culture, implicati in altre. […] L’identità è congiunturale, non essenziale”13. Una mangrovia con molte radici, tra la memoria e il desiderio.
- Per la versione francese Condé, M. (1989). La Traverseé de la Mangrove. Parigi: Mercure de France. Il libro è stato tradotto in italiano dodici anni dopo (La traversata della mangrovia, 2001, Edizioni Lavoro) e poi nel 2021 da Giunti Editore. ↩︎
- Fukuyama, F. (1989b). The end of history. In Quadrant, 33(8), 15. ↩︎
- Non è un caso che il rizoma della mangrovia abbia ispirato la costruzione di Deleuze, G., Guattari, F. (1980). Mille Plateaux: Capitalisme et Schizophrenie, II. Parigi: Editions de Minuit. ↩︎
- La formula “Per li rami” deriva da Dante Alighieri, Purgatorio (VII, 121) «Rade volte risurge per li rami l’umana probitate; e questo vole quei che la dà, perché da lui si chiami». ↩︎
- Cfr. Fabietti, U., Malighetti, R., Matera, V. (2012). Dal tribale al globale. Introduzione all’antropologia. Milano: Mondadori, 171-72. ↩︎
- Chamoiseau, P. (1988). Solibo Magnifique. Parigi: Gallimard. ↩︎
- Bernabé, J., Chamoiseau, P., Confiant, R. (1989). Éloge de la Créolité, Parigi: Gallimard. ↩︎
- Chamoiseau, P., Balutansky, K. M. (1991, Spring) Reflections on Maryse Condé’s Traversée de la Mangrove. In Callaloo, 14(2), 390. ↩︎
- Chamoiseau, P., Balutansky, K. M., op. cit. 395. ↩︎
- Condé, M. (1998). Créolité without the Creole Language?. In Caribbean Creolization, trans. Balutansky, K. ed. Balutansky and Sourieau, Gainesville: University Press of Florida. ↩︎
- Taleb-Khyar, M. B. (1991). An Interview With Maryse Condé and Rita Dove. In Callaloo, 14(2), 347-366. ↩︎
- Condé, M. (1998). Créolité without the Creole Language?. op. cit. ↩︎
- Clifford, J. (1988). The Predicament of Culture. Twentieth-Century Ethnography, Literature, and Art. Cambridge (Mass.) – London: Harvard University Press ↩︎