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La salute dei corpi che muoiono

Vulnerabilità e interdipendenza nei progetti di Mara Pieri

Josephine Condemi
una storia scritta da
Josephine Condemi
 
 
La salute dei corpi che muoiono

Salute è benessere e non solo assenza di malattia: quanto di questa definizione è applicata nelle nostre città? La ricercatrice Mara Pieri lavora da anni su come rendere l’accesso alle cure sanitarie nelle città davvero inclusivo. A partire da una piccola rivoluzione: considerare la salute non un fatto individuale ma un privilegio fragile che riguarda tutte le persone

Città salubri, città patogene. Città tossiche, città in cui sai di poter ricevere cure, oppure no. Dipende dalla città, dipende da chi sei. Dipende da come è organizzato l’accesso ai servizi, dipende se appartieni alla categoria che può accedervi.

La salute è stata definita dalla costituzione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità come «uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale1», molto oltre l’assenza di malattia: una definizione che chiama direttamente in causa le strutture sociali e relazionali che compongono le nostre vite e ci fanno, o meno, stare bene. Eppure, il rapporto tra città e salute si misura spesso solo in termini di livelli di inquinamento ambientale e accesso ai servizi di cura, perché spesso neanche questi sono garantiti. E in pochi luoghi come le grandi città, se stai male, rischi di diventare uno scarto.

«La malattia molto spesso è considerata una questione individuale, una cosa che succede a te come persona e sulla quale non c’è responsabilità sociale e quindi neanche trame collettive che ti sostengano» sottolinea la sociologa Mara Pieri. «Se stai male diventi immediatamente una persona meno produttiva, affidabile, una persona intermittente, il tuo corpo fallisce perché funziona meno ma tu devi sforzarti, devi dimostrare di lottare, di essere eccezionale, di avere tutte le risorse per rappresentare comunque una storia di successo, nonostante la malattia». Questa narrazione di performatività, evidenzia Pieri, rimuove il dato di fatto che «La salute e la malattia riguardano ogni persona: chiunque può ammalarsi, può diventare disabile in qualsiasi momento della vita. Quello della salute è veramente un privilegio molto molto instabile, fragile, quindi se ci pensiamo collettivamente, ci guadagniamo».

Mara Pieri è ricercatrice associata al Centro de Estudos Sociais dell’Università di Coimbra (Portogallo). Ha conseguito un dottorato di ricerca in Diritti umani nelle società contemporanee con una tesi sulle esperienze delle persone LGBTQ+ con malattie croniche in Italia e Portogallo, che ha vinto il premio Controtempo della Fondazione Codici Ricerca e Intervento (Milano) e la menzione d’onore del Premio Virgínia Quaresma in Studi Culturali (Univ. di Aveiro). Esperta di comunicazione accessibile e inclusiva, è componente del team di ricerca del progetto REMEMBER – Experiences of Older LGBTQ People in Democratic Portugal (1974-2020). Attualmente sta conducendo il progetto DIVERS – Diversity and inclusion in access to health (2022-2028) sull’accesso ai servizi sanitari per la popolazione LGBTQIA+ in Portogallo.

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Dalla performatività all’interdipendenza

Stai male, il corpo non risponde, la mente men che meno. Ma ti viene detto di sorridere, di farti forza, che se vuoi puoi e quindi, se non ce la fai, in fondo è colpa tua. «Siamo passati/e dall’antico stigma della malattia come punizione divina all’attuale rimozione della vulnerabilità dei nostri corpi che diventa pressione allucinante nei confronti di chi affronta una malattia, un disagio, un momento di difficoltà» sottolinea Pieri. Ricercatrice al Centro di Studi Sociali dell’Università di Coimbra, in Portogallo, si occupa da anni di comunicazione inclusiva e diritto alla salute in ottica intersezionale: un approccio emerso nell’ambito degli studi femministi che incrocia le diverse categorie identitarie per mostrare come la stessa persona o lo stesso gruppo sociale possa subire molteplici livelli di discriminazione sociale.

Un’ottica che problematizza l’asimmetria alla base dello stesso rapporto di cura: «Il femminismo ci ha mostrato che la cura non è sempre una questione orizzontale ma anzi si fonda sulla subalternità dei soggetti che sono curati rispetto ai soggetti che curano» sottolinea Pieri. «I primi sono considerati manchevoli rispetto allo standard, un po’ svuotati della propria autodeterminazione, al contrario dei secondi che se ne fanno carico».

Da questa verticalità per Pieri occorrerebbe invece passare e agire un’idea di «interdipendenza, in cui il punto di partenza è che chiunque è vulnerabile e fragile, per motivi diversi e in momenti diversi della vita: anziché quindi pensare alla vulnerabilità come causa di discriminazione e marginalizzazione di aspetti della propria identità e del proprio corpo, si tratterebbe di riconoscere che siamo una rete di persone tutte autodeterminate, nessuna manchevole, che mettono a fattor comune la propria fragilità come punto di forza della stessa umanità».    

 

Intersezionalità per i servizi sanitari

Cosa fare quindi per una città che garantisca almeno il diritto di accesso ai servizi sanitari? «Il primo passo sarebbe renderci conto che i servizi, le istituzioni, le forme attuali di organizzazione sono strutturate un po’ a compartimenti stagni: le persone disabili da una parte, gli LGBTQIA+ dall’altra, le donne dall’altra ancora, come se queste fossero comunità a sé stanti» afferma Pieri. «Il primo pezzettino sarebbe quello di fluidificare le barriere tra questi gruppi e adottare uno sguardo intersezionale, per evitare di mettere in caselline troppo strette le persone. Poi c’è un discorso sull’accessibilità e la sicurezza degli spazi, nel senso di percepire accoglienza nelle strutture sanitarie: a volte basta anche una bandiera arcobaleno negli ambulatori accanto ai poster dei farmaci e dall’anatomia umana per superare la barriera all’accesso. E poi serve un’educazione alla diversità, un abituarsi a tutte le età al fatto che la diversità è il marchio di fabbrica di noi esseri umani e il fatto che veniamo costantemente incasellati non ci rende giustizia: in fondo non c’è posto migliore dove questa diversità possa trovare spazio se non in una città».

Nel suo progetto di ricerca di dottorato, Pieri ha indagato le esperienze di giovani persone adulte in Italia e Portogallo che si riconoscono come LGBTQIA+ con malattie croniche: «Dal mio studio è emersa un’assenza totale di preparazione del personale sanitario sulle questioni LGBTQIA+: nel corso di almeno sei anni di formazione il personale medico di qualsiasi specialità non fa quasi mai incontri o lezioni su cosa voglia dire LGBTQIA+, quale sia la differenza tra identità di genere e orientamento sessuale, quali siano le differenti forme di identificazione delle persone trans, sull’esistenza delle persone non binarie, sulla possibile scelta delle persone trans di non sottoporsi a un percorso chirurgico ormonale, sul possibile pericolo per le donne lesbiche di contrarre malattie sessualmente trasmissibili eccetera: temi che diventano importanti per costruire un rapporto di fiducia con le persone che si rivolgono ai servizi e per fornire risposte adeguate. Ci sono esperienze drammatiche di persone trans messe nel reparto del genere in cui non si riconoscono o di fronte a personale specialistico che non sa come gestire l’assunzione di ormoni insieme a un problema cardiaco».

Per colmare questo gap, la fondazione internazionale no-profit Treat It Queer2, formata anche da personale sanitario LGBTQIA+, ha sviluppato una serie di pocket cards tradotte in diverse lingue, tra cui l’italiano. Nel novembre 2023 per la prima volta il Consiglio d’Europa ha organizzato una serie di incontri3 sulla salute LGBTQIA+, che porteranno alla stesura di un documento programmatico con raccomandazioni per i paesi membri.

Il corpo in gioco

«Dalla storia dei movimenti queer possiamo imparare forme creative di fare comunità, di attivazione di reti di supporto reciproco» afferma Pieri. «Dal mio percorso come attivista femminista LGBT ho imparato che è molto importante che siamo noi persone marginalizzate a parlare della nostra esperienza, perché spesso sono gli altri a raccontarci». Nel frattempo, Pieri continua a indagare l’accesso ai servizi sanitari portoghesi LGBTQIA+ delle persone dopo l’emanazione dello specifico quadro legislativo ministeriale.

«Credo che sia un privilegio poter fare ricerca su questioni che appassionano, indipendentemente dall’avere un riferimento alla propria relazione personale» sottolinea la sociologa. «Raccontarmi crea delle forme di empatia e aiuta le persone a sentirsi meno scettiche a partecipare ad un progetto accademico.  Dopodiché la vita accademica non è pensata per dei corpi che falliscono, c’è sempre una bella dose di paradosso nel parlare di malattia cronica quando c’è il tuo corpo che magari non ti viene dietro e ti devi fermare: è sempre un’occasione per vedere il potenziale politico, produttivo, intellettuale di lavorare su questi concetti e cambiare anche un po’ le pratiche intorno a me. Questo è il mio impegno».


  1. Cfr. Constitution of the World Health Organization. ↩︎
  2. Cfr. A tool for health justice, right there in your pocket. In Treat it Queer. ↩︎
  3. Qui il programma al primo: Advancing Healthcare Access for LGBTI people in Europe (15 Nov, 2023). ↩︎

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