Le mangrovie che aggregano culture
Il caso delle isole Andamane e Nicobare nella ricerca di Meenakshi Poti

Nei due arcipelaghi dell’Oceano Indiano popoli diversi hanno dovuto imparare a convivere anche grazie alla mangrovia: ecco come
«Le mangrovie? Ci hanno protetto dallo tsunami»: Meenakshi Poti ha ricevuto spesso questa risposta negli ultimi quattro anni. Per il suo progetto interdisciplinare di dottorato alla Université Libre e alla Vrije Universiteit di Bruxelles, in Belgio, ha intervistato più di cento persone delle isole Andamane e Nicobare, arcipelaghi di 572 isole, di cui 38 abitate, nell’Oceano Indiano.
A sud, l’arcipelago delle Nicobare dista 150 chilometri dall’isola indonesiana di Sumatra, epicentro del terremoto del dicembre 2004: la frattura della faglia tra la placca birmana e la placca indiana ha causato scosse superiori al nono grado della scala Mercalli, l’inabissamento di alcune isole e un maremoto con onde alte 15 metri. Dove presenti, le foreste di mangrovie hanno agito da cintura protettiva verso la costa, e quindi la popolazione, riducendo l’impatto delle onde anomale. Ultimo episodio di un rapporto profondo che parte da lontano.

La mangrovia come sistema socio-ecologico
«La mangrovia è una finestra sulle culture di questi arcipelaghi» sostiene Poti, che nel suo progetto analizza le mangrovie come sistemi socio-ecologici. Biologa, Meenakshi Poti ha conseguito un master Erasmus Mundus TROPIMUNDO studiando in particolare la conservazione e il consumo di uova di tartarughe marine nell’isola Redang, in Malesia: un progetto che l’ha portata ad aprirsi alle scienze sociali. «Integrare gli aspetti sociali, economici e politici è fondamentale per lavorare a una governance e a una conservazione efficaci» racconta. «Nel mio progetto di dottorato, ho recuperato una passione dell’infanzia: da bambina, sulla costa sud-occidentale dell’India, osservavo spesso le mangrovie e le persone. Mi sono quindi dedicata ad approfondire questa relazione nelle piccole isole che devono affrontare i cambiamenti ambientali, come il riscaldamento globale e gli eventi estremi», spiega Poti. «La natura multiculturale delle isole Andamane e Nicobare aggiunge complessità ma anche fascino al mio percorso».
La pluralità delle lingue parlate negli arcipelaghi (più di dieci) testimonia la storia sfaccettata di questi luoghi: circa 8.000 chilometri quadrati che devono la loro bellezza e la loro fragilità allo stesso evento, la nascita dalla collisione di due placche tettoniche che periodicamente chiedono il conto. Alla ricchezza di biodiversità, che ha portato l’UNESCO a inserire l’isola maggiore delle Nicobare nel network globale di riserve della biosfera, si aggiunge la posizione strategica nel Golfo del Bengala, che ha reso questi arcipelaghi oggetto di conquista dei paesi vicini, a cui, da metà ‘700, si sono aggiunti immancabilmente gli europei. Una storia di cui racconta anche la mangrovia.
Le migrazioni attraverso le mangrovie

Meenakshi Poti studia le mangrovie come sistemi socio-ecologici e utilizza l’arte per comunicare la scienza.
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«Pare che i primi tentativi di colonizzazione nel ‘700 da parte dei danesi e degli inglesi fallirono a causa delle epidemie» spiega Poti. «Quindi quando a metà ‘800 gli inglesi tornarono per istituire una colonia penale, avevano in mente questa idea di “bonifica” che passava sia dall’uccisione degli indigeni che dall’abbattimento delle mangrovie, considerate vettori di malattie e buone solo per ricavarne legna e carbone».
Ma tagliare una mangrovia non è semplice, richiede molto lavoro: il compito fu affidato prima ai prigionieri della colonia penale istituita in loco (per cui gli arcipelaghi presero il nome di “Kalapani”, cioè “acque nere”) e poi, a partire dagli anni Venti, alle persone Karen, fatte migrare appositamente dalla Birmania perché abili nella caccia, nelle attività forestali e nella medicina tradizionale, così come altre comunità dell’India centrale. «I Karen costruirono un particolare tipo di canoa, khlee in lingua karen, utile a muoversi tra le mangrovie e condivisero questo sapere con le altre comunità» spiega Poti. A questo periodo risale la pubblicazione del classico dell’antropologo Radcliffe-Brown The Andaman Islanders.
Dopo l’indipendenza dell’India dalla Gran Bretagna nel 1947, gli arcipelaghi sono diventati Union Territory indiano, governati dall’amministrazione centrale di Nuova Delhi. Nei decenni, le isole hanno accolto diverse migrazioni: dai Ranchi dell’India centrale ai rifugiati bengalesi dopo la divisione del Bengala tra India e Pakistan. «Ciascuna di queste comunità veniva da tradizioni diverse» spiega Poti «I Ranchi vivevano in una zona interna e non avevano mai visto il mare: ricordano ancora perfettamente la paura del viaggio in barca e la meraviglia e il terrore provato alla vista delle mangrovie». Un albero anfibio, che sta sia sulla terra sia sull’acqua, con grandi radici su un terreno paludoso, in cui il piede affonda: «Ne è nata una diffidenza che per anni non ha fatto avvicinare i Ranchi alla mangrovia» racconta Poti. Viceversa, le persone bengalesi erano abituate a stare sulla costa e pescare con differenti tecniche: alcuni arrivavano dalla zona delle Sundarbans, la più grande foresta di mangrovie del mondo. «In questi anni i partecipanti alla mia ricerca hanno descritto come le diverse comunità abbiano imparato l’una dall’altra e siano cresciute fino a utilizzare le mangrovie per la pesca e per altri scopi» illustra Poti. «Oggi le mangrovie svolgono un ruolo fondamentale per il loro sostentamento».
Pescando tra le mangrovie
Le isole Andamane e Nicobare ospitano 34 specie di mangrovia (la metà delle specie globali) a cui si aggiungono quattro specie ibride. «Sulle isole la connettività è migliorata solo negli ultimi tre anni, ma attraverso le mappature via GPS e il remote sensing è stato possibile misurare l’impatto dello tsunami sulle mangrovie» spiega Poti. Il terremoto e lo tsunami del 2004 hanno infatti causato il degrado del 97% delle mangrovie nelle isole Nicobare e del 47% in quelle Andamane. Alcune coste sono state sommerse a Nicobar e nelle Andamane meridionali, mentre nelle Andamane settentrionali il sollevamento della costa ha portato all’emersione dei fondali della barriera corallina e ha interrotto il flusso delle maree che alimentava le radici delle mangrovie. Sembra che la perdita di mangrovie e l’alterazione dell’influenza delle maree abbiano avuto un impatto negativo sugli stock ittici.
«Ho conosciuto una donna Karen di 70 anni che andava a pescare ogni settimana tra le mangrovie e mi ha chiesto di accompagnarla» racconta Poti. «Non parlava hindi, quindi si è unita a noi una ragazza per la traduzione, che mi ha convinto a portare con me il cellulare per scattare delle foto». Non è facile camminare a piedi nudi in mezzo alle mangrovie, tra le grosse radici e i coralli che fuoriescono e il terreno paludoso: «Non ero ben equipaggiata» ricorda Poti. Tra l’estrarre lo smartphone per scattare una foto e l’inciampare su una radice è stato un attimo: «il telefono è caduto nell’acqua, la traduttrice si è offerta di tornare al villaggio per ripararlo, non prima di avermi detto “Ma tu continua a pescare con lei!”». Nelle successive tre ore, avrebbero preso un solo pesce: «Non è stata una buona giornata per la pesca, ma fuori dallo schermo del telefono avevo tutti i sensi accesi. La mia memoria visiva era al massimo e non vedevo l’ora di poter disegnare questa esperienza».
L’arte per comunicare la scienza
Poti infatti utilizza l’arte, e le illustrazioni in particolare, come mezzo di comunicazione: «Le persone quando vedono i miei disegni diventano amichevoli e più interessate alla mia ricerca, sentono che c’è qualcosa in comune, qualcosa che le riguarda. Le mie illustrazioni sono piene di colori, utili per descrivere cosa succede in un sistema e quindi comunicare la scienza». Per la tesi di master, Poti ha tradotto in fumetti le sue analisi statistiche sotto forma di abstract grafici; durante la ricerca nelle isole Andamane e Nicobare, le illustrazioni le sono servite per avviare la conversazione, coinvolgere anche bambini e bambine, ringraziare per l’ospitalità, rielaborare quanto vissuto. «Le storie diventano più facili da condividere dopo che le ho disegnate. Spesso è un momento di riflessione tranquilla, altre volte invece disegno in mezzo alle altre persone, come in un negozio di tè».
Un approccio di comunicazione che ha ricevuto l’attenzione dell’Unesco: nel luglio 2023 Poti è stata chiamata a collaborare al progetto “MangRes” di recupero delle mangrovie nell’isola di Providence all’interno della SeaFlower Biosphere Reserve, in Colombia. «L’isola è stata colpita da un violento uragano nel novembre 2020» racconta. «Ho cercato di contribuire creando un ponte tra le comunità locali e le organizzazioni che promuovono la cooperazione allo sviluppo». Le radici che legano le mangrovie alle persone sono profonde: non si possono curare le une senza valorizzare le altre.