Una protezione UV per le foreste
I raggi ultravioletti svelano meraviglie e sofferenze segrete delle piante
La crisi climatica rompe gli equilibri tra UV e foreste: gli effetti sono lievi, per ora, ma il biologo Paul Barnes sottolinea l’urgenza di monitorarne la superficie e la salute. David Atthowe lo fa fotografandole con la tecnica della biofluorescenza, per svelare la bellezza anche delle piante più comuni e ricordarci di proteggerle tutte
Clima, raggi ultravioletti e piante interagiscono da sempre in una sorta di magica danza a tre che si svolge tra cielo e terra, di quelle che solo la natura è in grado di fare, se lasciata libera di evolvere. Una danza violentemente interrotta dalla crisi climatica, che oggi costringe le foreste di tutto il mondo a “imparare nuovi passi”, nuovi modi per sopravvivere a un fenomeno innescato da coloro che le attraversano da trekker, da turisti o, nel migliore dei casi, da abitanti nativi. Gli esseri umani.
Come gli UV incidono sulle foreste
Se si fa scorrere lo sguardo sull’intero spettro solare, le radiazioni UV rischiano quasi di sfuggire. Nello spettro elettromagnetico che rappresenta le diverse frequenze delle radiazioni, le UV si trovano tra i raggi X e la radiazione visibile: l’intervallo di lunghezze d’onda che li caratterizza (10-400 nm) rappresenta una parte relativamente piccola, ma ciò non impedisce loro di impattare sulla vita di tutte le piante.
Perno delicato del ciclo globale del carbonio, di cui rappresentano importanti serbatoi naturali, le foreste rischiano di essere turbate dalle variazioni di radiazione solare UV. È un fenomeno che accade sotto i nostri occhi, invisibile e lento ma inesorabile.
Gli effetti “minori” riguardano la crescita e lo sviluppo delle piante, a partire dai flavonoidi1, che svolgono anche un ruolo di difesa contro erbivori e patogeni. Paul Barnes, biologo ambientale, da sempre è attento ai segnali anche minimi che possono farci capire lo stato di salute della Terra. Studia le interazioni tra luce ed ecosistemi e spiega:
I raggi UV possono arrivare a influire sulla forma delle piante e delle singole foglie, limitandone la crescita e alterando i rapporti di competizione tra diverse specie vegetali.
Ciò significa obbligare interi ecosistemi a trovare nuovi equilibri, a riassestarsi, trovando una configurazione che permetta loro di sopravvivere, non senza un forte impatto sulle singole specie vegetali e animali. Le foreste nutrono tante creature che, a seguito di un cambio di tipologia di piante, non sempre sono pronte a cambiare regime alimentare e possono trovarsi obbligate a migrare.
Paul W. Barnes è professore di biologia ambientale presso la Loyola University di New Orleans. Dopo un dottorato presso l’Università del Nebraska e un post-doc presso la Utah State University ha insegnato presso la Loyola, il St. Olaf College e la Texas State University, guidando il Laboratorio di ricerca ambientale dell’EPA (Environmental Protection Agency). Come ecologo e fisiologico, esamina la risposta delle piante e degli ecosistemi ai cambiamenti ambientali globali. Le sue ricerche sono state finanziate da National Science Foundation, Dipartimento dell’Agricoltura USA, NASA, EPA e da vari enti statali e locali. Supera le 200 pubblicazioni e ha offerto consulenze a NSF (National Science Foundation), USDA United States Department of Agriculture , EPA, l’Accademia Nazionale delle Scienze e il programma COST dell’UE. Attualmente è co-presidente del gruppo di valutazione degli effetti ambientali del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente e tiene corsi di botanica, ecologia e scienze ambientali alla Loyola University.
«Il rischio più grande per le foreste, dovuto ai raggi UV, consiste invece nella riduzione della fotosintesi e della produttività» spiega Barnes, poi precisando che «questi livelli così estremi sono stati per ora in gran parte evitati grazie al Protocollo di Montréal2».
In vigore dal 1989 per regolamentare le sostanze chimiche che riducono lo strato di ozono, questo accordo internazionale ha finora contribuito a eliminare il 99% delle sostanze chimiche dannose per l’ozono, come i clorofluorocarburi (CFC). Un loro uso continuativo e incontrollato avrebbe spinto le temperature globali a un aumento di un grado Celsius entro la metà del secolo. Grazie al Protocollo di Montreal, invece, dal 2023 il buco dell’ozono sembra quasi completamente recuperato. Si potrebbe forse chiudere globalmente entro il 2050 nelle zone centrali3, entro il 2045 nell’Artico ed entro il 2066 in Antartide.
Dai timori per la sorte delle foreste di tutto il mondo «irradiate da lunghezze d’onda UV», si passa alla piacevole sensazione del toccare con mano l’efficacia di un accordo internazionale. Il Protocollo di Montreal è infatti l’esempio di come azioni concordate e condivise possano impattare positivamente sul destino del nostro pianeta, anche se frutto di compromessi, come inevitabile che sia quando si devono far confluire in un singolo documento tanti diversi interessi. Le foreste finora salvate, l’aumento di temperatura evitato, ne sono la prova visibile e misurabile.
Cosa abbiamo rischiato e cosa resta da fare
La consapevolezza di aver evitato effetti gravi, secondo Barnes, non deve spingerci a ritenere il “pericolo UV” scampato. «Andrebbe sempre tenuto ben presente cosa possiamo ancora rischiare che avvenga. Secondo uno dei pochi studi modellistici recenti esistenti, i livelli estremi di radiazione ultravioletta-B (290-315 nm) che si sarebbero verificati in assenza del Protocollo di Montreal avrebbero ridotto la fotosintesi e la crescita delle piante a livello globale, con conseguente riduzione della quantità di carbonio trattenuta dalla vegetazione terrestre» spiega Barnes «entro la fine di questo secolo, avremmo registrato un aumento di 115-235 parti per milione di anidride carbonica nell’atmosfera e di 0,5-1,0 °C della temperatura media superficiale, con picchi di oltre 1,0 °C nell’Artico».
Questo non deve spaventarci ma, anzi, può e dovrebbe guidarci nelle priorità che oggi lasciamo guidino le scelte strategiche, su scala locale e globale.
La riduzione delle emissioni di gas serra e la protezione della biosfera continuano a essere essenziali per mantenere la salute e la diversità biologica delle foreste e degli altri ecosistemi terrestri.
Continua Barnes «È essenziale continuare il monitoraggio della copertura forestale globale e della fotosintesi. Anzi, va ampliato, per quantificare la produttività e la composizione delle specie delle comunità forestali».
Cambiare lunghezza d’onda grazie ai raggi UV
Esplorando futuri possibili con raggi UV si mette in luce quanto i trattati internazionali come il Protocollo di Montreal possano essere decisivi nel tracciare il corso dell’evoluzione dell’intero ecosistema terrestre. Le stesse lunghezze d’onda, immesse all’interno delle foreste stesse, fanno luce «sui loro segreti fluorescenti che aspettano solo di essere svelati».
David Atthowe ha guidato spedizioni nelle foreste pluviali di tutto il mondo e ha avuto la fortuna di vivere con molte tribù indigene. è il direttore di Reveal Nature, una società che offre esperienze di connessione con la natura che ne mostrano i lati nascosti. Ha trascorso più di 500 ore sul campo per esplorare la biofluorescenza in tutto il mondo, facendo molte scoperte nuove per la scienza. È anche il fondatore di Nomadic Lion, un’organizzazione che ha percorso più di 10.000 km a piedi in 5 Paesi diversi per condividere felicità e gioia con tutti.
Scopri di piùLi chiama così David Atthowe, esploratore, fotografo e terapeuta forestale inglese che utilizza le radiazioni ultraviolette per scoprire, far scoprire e immortalare «il volto affascinante e invisibile all’occhio umano di piante molto comuni, a cui normalmente non faremmo caso» spiega.
Vuole stupire, indurre le persone a cercare e trovare «ragioni di meraviglia nel quotidiano», mostrare loro che esistono, anche se non sempre immediatamente individuabili. A volte bisogna cambiare lunghezze d’onda per accorgersi di essere circondati dalla bellezza. A volte serve cambiare punto di vista.
«Nel Norfolk, in Inghilterra, abbiamo per esempio molte ortiche ignorate da tutti ma che di notte, sotto la luce UV, possono assumere quattro colori diversi, a seconda della loro salute e della loro posizione».
Vedere un’ortica che si illumina di rosso o di blu acceso la fa certamente apparire improvvisamente molto più speciale, ma quello di Atthowe è molto più di un gioco di luci e di meraviglia nei boschi. È modo di sensibilizzare le persone, spingendole a prendersi cura di ogni angolo del pianeta. Da fotografo esploratore, lo fa nutrendo di bellezza chi gli regala fiducia e qualche ora di tempo.
«Stiamo vivendo un periodo di estinzione di massa di molte importanti specie, è importante documentare quanta più biofluorescenza possibile» spiega «è una caratteristica diffusa e ci permette di scoprire molto sullo stato di salute delle piante. Molte infezioni fungine, per esempio, presentano una fluorescenza evidente, ci sono altre piante che rilasciano invece una linfa difensiva fluorescente dopo essere state rovinate dagli erbivori. Tutti segnali interessanti per chi desidera preservare la biodiversità oggi a rischio».
Le fotografie biofluorescenti di David Atthowe
Il mondo della biofluorescenza ha conquistato subito questo esploratore e fotografo, rivelandogli «un mondo vibrante di colori, invisibile a occhio nudo, che ho subito desiderato condividere con il maggior numero di persone possibile» spiega. Questa sua urgenza impulsiva si è trasformata nel progetto Reveal Nature e in una serie di passeggiate notturne e di spedizioni guidate, per esplorare nuovi habitat con la biofluorescenza.
La biofluorescenza è il fenomeno per cui un organismo vivente, come una pianta, assorbe luce a una lunghezza d’onda non visibile, come quella UV, e la riemette allo spettro del visibile.
«Sono un appassionato di fotografia da molto tempo e mi sono entusiasmato quando ho capito che era possibile catturare in immagini quella stessa magia che vedevano i miei occhi» spiega Atthowe «Quello che i nostri occhi possono vedere, può sempre essere anche fotografato: stiamo documentando ed esplorando la biofluorescenza in un’ampia gamma di habitat in tutto il mondo. Quest’anno ci concentriamo in particolare sulla documentazione della fluorescenza nelle foreste pluviali temperate. Quelle del Regno Unito, da cui siamo partiti, ospitano la più grande concentrazione di licheni e muschi oceanici d’Europa. Sono soggetti affascinanti, alcuni addirittura si illuminano di colori diversi a seconda della sezione che si osserva». Le esplorazioni biofluorescenti di Atthowe sono una continua scoperta di meraviglie insospettabili, oltre che invisibili. «C’è il “glittering wood moss” (muschio di legno scintillante) che rende dorata la punta di alcuni rami, altri muschi sono stellati e rosso marroni, si intrecciano con le fronde blu di una rara felce di Tunbridge, e brillano quando coperti di gocce di acqua piovana» racconta e fotografa, per mostrare a chi non ha ancora provato a guardare il mondo attraverso filtri UV cosa si perde. E cosa tutti rischiamo di compromettere per sempre, calpestando gli equilibri delle foreste, anche di quelle a pochi passi dalle proprie città.
Le foreste del mondo ai raggi UV
È per questo che Atthowe ha iniziato i suoi esperimenti nella “sua” Gran Bretagna. “I raggi UV rendono alcune sue foreste la versione occidentale di una barriera corallina tropicale, mostrando un tripudio di colori, con strutture e forme ramificate sorprendenti, con schemi e relazioni che collegano segretamente tra loro tutte le forme di vita” spiega, anticipando cosa si può ammirare durante le passeggiate notturne biofluorescenti guidate a cui negli anni hanno partecipato circa 1.000 persone.
Avendo vissuto anche in India, Malesia e Indonesia, questo esploratore non ha alcuna intenzione di restare sull’isola natia. Ha già compiuto un giro di nove settimane nelle zone del Borneo, appena terminato, dove ha anche scoperto come la Nepenthes rafflesiana4 abbia quattro diversi colori di fluorescenza: rosa, viola, giallo e blu. «Uno studio condotto presso il Jawaharlal Nehru Tropical Botanic Garden and Research Institute in India5 ha dimostrato come tale fenomeno serva come richiamo per attirare le prede» spiega entusiasta al solo ricordo dell’immagine vista.
Quest’anno l’idea è quella di raggiungere il Cile, per esplorare la foresta pluviale delle Maldive, ed entro i prossimi 5 esplorare con la biofluorescenza anche le foreste di Messico, Colombia, Ecuador, India, Madagascar e Kenya. Tutti viaggi che richiedono un certo spirito di avventura, ma non un’attrezzatura specifica: «bastano delle torce UV» precisa Atthowe. È la nostra mente a dover essere “attrezzata”, ad accettare di fermarsi e far caso alla bellezza meno evidente ma che, con altre lunghezze d’onda, brilla e ci mostra una quotidianità preziosa che ciascuno ha il dovere di proteggere e il piacere di poter ammirare, con o senza raggi UV.
- Per approfondire ulteriormente la natura dei flavonoidi si veda Centorrino F. (2021). I flavonoidi: caratteristiche, struttura e proprietà, Microbiologia Italia. https://www.microbiologiaitalia.it/metaboliti/i-flavonoidi-caratteristiche-struttura-e-proprieta/ ↩︎
- Sul Protocollo di Montreal, ratificato da 197 Paesi nel 1988, si veda https://www.mase.gov.it/pagina/il-protocollo-di-montreal#:~:text=Nel%201990%2C%20il%20Protocollo%20di,consumo%20di%20sostanze%20ozono%20lesive ↩︎
- Sulla recente notizia della possibile chiusura del buco dell’ozono entro metà secolo si veda World Meteorological Organization (2022). Executive summary. Scientific assessment of ozone depletion: 2022, WMO, GAW Report No. 278, pp 56, Geneva. https://ozone.unep.org/system/files/documents/Scientific-Assessment-of-Ozone-Depletion-2022-Executive-Summary.pdf ↩︎
- Sulla Nepenthes rafflesiana si veda https://www.aipcnet.it/specie/nepenthes-rafflessiana/ ↩︎
- Per approfondire il fenomeno studiato presso il Jawaharlal Nehru Tropical Botanic Garden and Research Institute si veda Baby, S., Johnson, A. J., Zachariah, E. J., & Hussain, A. A. (2017). Nepenthes pitchers are CO2-enriched cavities, emit CO2 to attract preys. Scientific Reports, 7(1). https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/28900277/ ↩︎