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Intervista

Hackerare le narrazioni del digitale

Addie Wagenknecht tra errore, gioco e futuri da riscrivere

Federica La Russa
una storia scritta da
Federica La Russa
 
 
Hackerare le narrazioni del digitale

In un ecosistema tecnologico sempre più veloce, uniforme e guidato da narrazioni dominanti, parlare di futuro significa spesso accettare ciò che è già stato deciso. L’opera dell’artista americana Addie Wagenknecht si muove invece nella direzione opposta: hackerare le storie che raccontiamo sulla tecnologia, intervenire nei sistemi dall’interno, esplorare i margini dove l’errore, il gioco e la deviazione diventano strumenti politici e materiali artistici.

Artista e ricercatrice, Addie Wagenknecht lavora da anni sul confine tra tecnologia, immaginazione politica e pratiche femministe, attraversando linguaggi che vanno dall’hacking (intervenendo e riutilizzando sistemi tecnologici per modificarne logiche e usi) all’arte performativa fino alla critica dei sistemi digitali.

Addie Wagenknecht (1981) è un’artista e ricercatrice americana che vive a New York City e in Liechtenstein. Il suo lavoro esplora la tensione tra espressione e tecnologia. Cerca di fondere il lavoro concettuale con forme di hacking e scultura e si occupa principalmente di idee legate alla cultura pop, alla teoria femminista e all’hardware. Le sue precedenti esposizioni includono il Centre Pompidou, l’Istanbul Modern, la Whitechapel Gallery e il New Museum di New York, tra gli altri. Ha collaborato con CERN, Chanel, il Whitney Museum of American Art e il gruppo Art Machine Intelligence (AMI) di Google. Il suo lavoro è stato presentato in numerosi libri e riviste, come TIME, Wall Street Journal, Vanity Fair, Art in America e The New York Times.

Il suo percorso contribuisce a immaginare futuri non autorizzati, malleabili e collettivi, in cui la tecnologia non è un destino ma un terreno di intervento. Deep Lab, progetto transdisciplinare attivo fino alla fine degli anni 2010, è stato uno degli spazi in cui questa ricerca ha preso forma, lasciando un’eredità che continua a informare il suo lavoro.

In dialogo con HerTech, progetto europeo dedicato a ripensare l’accesso e la rappresentazione di studentesse e lavoratrici nei mondi tecnologici, abbiamo incontrato Addie Wagenknecht, figura chiave di una pratica femminista che attraversa arte e tecnologia, per parlare di errore come metodo, di gioco come gesto radicale e delle urgenze poetiche che attraversano il digitale contemporaneo.

Il progetto interdisciplinare Deep Lab nasce da un’idea forte: che il futuro non sia qualcosa da osservare ma qualcosa da “ingaggiare”. Cosa significa per te “prendere parte al futuro”?

Suppongo significhi intervenire attivamente nelle narrazioni tecnologiche, sovvertendole dall’esterno o operando all’interno dei sistemi quel tanto che basta per passare inosservati. Hackerare, mixare1, co-creare per inserire una prospettiva che rifiuta di lasciare alla Silicon Valley, o alle forze di mercato, il compito di dettare il futuro.


Si tratta di malleabilità: il futuro come collaborazione o come prototipo, non come prodotto finito.

Dal 2010, dopo la decisione di sciogliere Deep Lab insieme alla mia co-fondatrice Maral Pourkazemi, continuo a facilitare workshop e ricerche in cui riecheggia l’ethos delle persone che ne hanno fatto parte, ma oggi lo porto avanti attraverso lavori individuali e collaborativi sia in termini tecnici che geografici. Progetti artistici che indagano nuovi allineamenti con una cultura in trasformazione, in cui i valori sono sempre più guidati da algoritmi e podcaster. Non a caso, nel saggio Self-Design and Aesthetic Responsibility, il filosofo Boris Groys descrive ciò che sta accadendo nel mondo dell’arte come una forma di curatela etica del sé2: un’epoca in cui l’aura dell’opera si è dissolta nella riproducibilità.

Deep Lab

Deep Lab è stato un progetto transdisciplinare e collettivo fondato nel dicembre 2014 su iniziativa di Addie Wagenknecht come risposta critica alla cultura digitale contemporanea e alla cultura peer-to-peer. Costituito da un gruppo internazionale di artiste, ricercatrici, scrittrici, ingegnere e produttrici culturali che lavorano insieme per esplorare e mettere in discussione temi come privacy, sorveglianza, codice, arte, social hacking, capitalismo, razza, anonimato e infrastrutture del XXI secolo. Il collettivo è stato supportato dallo Studio for Creative Inquiry della Carnegie Mellon University sotto la direzione di Golan Levin e dalla Warhol Foundation, dove, nel corso di un incubatore della durata di una settimana, ha prodotto un libro di circa 240 pagine, il ciclo di conferenze pubbliche “Deep Lab Lecture Series” e un documentario che raccoglie contributi e riflessioni delle e dei partecipanti, oltre a delineare un percorso esteso di workshop, educazione e “hacktivismo”. Il progetto ha coinvolto numerose voci di riconoscimento internazionale provenienti dal giornalismo, dall’attivismo digitale, dal mondo accademico e dall’arte, ed è esistito come comunità di pratica almeno fino al 2019.

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In che modo la tua recente pratica artistica riflette su questa trasformazione culturale, in cui il valore, non solo dell’opera ma anche del proprio sé o della propria identità, è sempre più mediato da algoritmi e piattaforme?

In Honest Day’s Work (2024), prendo parte a questa riflessione riutilizzando blockchain e freeport3 in una scultura performativa in perenne transito: i collezionisti grattano biglietti della lotteria per ottenere una possibilità di possesso. Il lavoro mette in luce le assurdità del mercato dell’arte – dai paradisi fiscali al rischio speculativo – ed è duchampiano4 perché trasforma la sua coreografia finanziaria in un mezzo artistico. Quello che mi interessa, infatti, è rendere visibili e comprensibili sistemi normalmente opachi, da quelli che operano in campo tecnologico fino a quelli che operano in campo artistico, con l’obiettivo che più persone dell’1% possano beneficiarne5. Il mio lavoro è, quindi, allo stesso tempo un atto educativo e una dichiarazione politica.

A partire da Alone Together6(2018), questo percorso si fonda su hack incarnati7, come la manipolazione dei robot aspirapolvere Roomba per criticare l’isolamento nella vita domestica delle madri. L’obiettivo è, quindi, agire per trasformare dispositivi apparentemente neutri in strumenti di rivelazione delle relazioni di potere, sociali e di valore che li strutturano. Oggi questo lavoro si estende all’“assenza di luogo” della blockchain, che produce valore e proprietà senza ancorarsi a uno spazio fisico o a una giurisdizione specifica, creando uno spazio che sembra neutrale ma che rende opache responsabilità e potere. E invitando, così, a una partecipazione attiva in futuri in cui la tecnologia sia al servizio della vulnerabilità, e non dello sfruttamento.

“Alone Together” è una serie di dipinti creati da Wagenknecht modificando un Roomba in modo che dipingesse su tela seguendo algoritmi personalizzati. Mentre il Roomba si muove intorno alla tela, Wagenknecht giace nuda. Il risultato è un vuoto a forma di corpo femminile circondato dai tratti blu del robot. Tutti i diritti riservati. Riprodotto con il consenso dell’autrice.

Nel tuo lavoro c’è una forte attenzione alle genealogie femminili della tecnologia. Perché questa prospettiva è così importante e come può cambiare il modo in cui oggi progettiamo il digitale?

Le genealogie femminili – penso alle macchine poetiche di Lovelace8 o alle rivoluzioni codificate dalle donne dell’ENIAC9, il primo computer elettronico digitale programmabile della storia – sono i fili nascosti della tecnologia. Mettono l’accento su cura, consapevolezza e relazionalità, piuttosto che sulla dominazione. Sono fondamentali per smontare il mito della bro-culture10dell’innovazione, rivelando come le donne siano state cancellate per sostenere l’efficienza patriarcale di sistemi che avvantaggiano gli uomini, costruiti dagli uomini. Questo sguardo può ridefinire il design digitale attraverso una diversa scala di priorità: interfacce che rifiutano modelli basati sull’estrazione di valore dagli utenti per privilegiare la sostenibilità economica e il ritorno sugli investimenti, ossia il Return of Investment (ROI). In questo contesto, il self-design11 diventa una questione etica: quando le identità vengono modellate attraverso interfacce e algoritmi, il modo in cui il digitale è progettato incide direttamente su come i soggetti si rappresentano, si valorizzano e diventano scambiabili.

Ridefinire il digitale oggi significa infondere queste genealogie nei sistemi di Intelligenza Artificiale, lavorando con strutture non lineari che valorizzano l’imperfezione invece dell’ideale di perfezione.

Credo che il motivo per cui l’Intelligenza Artificiale minacci così tanti uomini mediocri di mezza età sia legato a una cultura dell’essere “sicuri nell’avere torto”, mentre si utilizzano podcast e piattaforme come “X” (Twitter) come fonti di verità assoluta. L’Intelligenza Artificiale non è diversa: è solo più veloce e più sexy.

Nel tuo lavoro la sperimentazione include spesso fallimento, deviazione e glitch, ossia quegli errori, malfunzionamenti o anomalie nei sistemi tecnologici che producono risultati inaspettati. Che ruolo gioca l’errore come strumento creativo o pratica femminista?

L’errore è la confessione del sistema. Espone le sue falle e, così facendo, umanizza la tecnologia, rifiutando l’ideale di perfezione a favore della vulnerabilità. Come strumento creativo, l’errore apre percorsi non lineari e rende possibili relazioni più umane, in cui il disordine viene celebrato al posto dell’efficienza.

In Deep Lab abbiamo lavorato con quelli che chiamavamo “Error Parties”: momenti di sperimentazione collettiva in cui il codice veniva deliberatamente spinto al limite fino a collassare in forme visive e testuali simili a manifesti. In questi contesti, i glitch non erano problemi da correggere, ma obiettivi estetici finali. Abbracciare il fallimento diventa così una forma di resistenza: i glitch rivelano i bias, rendono visibili le asimmetrie normalmente nascoste nei sistemi tecnologici.

Successivamente, sempre con Honest Day’s Work (2024), sperimento l’idea di fallimento attraverso le lotterie: grattare il biglietto lo distrugge, ma è proprio questo gesto a rendere possibile la vincita. È un gesto in cui riecheggia il rischio sospeso dei freeport12 e che immagina la tecnologia come qualcosa di iterativo e non lineare, un processo fatto di tentativi, scarti e possibilità, più che di ottimizzazione e successo garantito.

Nel tuo lavoro, dall’uso creativo di droni come strumenti di pittura in Black Hawk Paint” (2007) ai router trasformati in graffiti digitali in “WifiTagger” (2013), tornano spesso il gioco, la curiosità e la libertà di esplorare. Che ruolo ha la sperimentazione ludica nel tuo approccio alla tecnologia? Può diventare una forma di resistenza e/o un materiale artistico?

Il gioco è un’alchimia sovversiva: quando funziona, trasforma la fatica della tecnologia in una rottura gioiosa.La curiosità filtra attraverso le crepe dell’automazione. Il piacere e la sperimentazione riconquistano l’agency 13sottraendola ai meccanismi di sorveglianza e controllo e trasformando algoritmi rigidi in tele espressive. Il gioco diventa una forma di resistenza inserendo l’assurdo nei sistemi di controllo e materiale artistico quando il codice viene remixato come poesia o i fallimenti come graffiti.

È un modo per alimentare un immaginario collettivo all’interno di un ecosistema dominato dall’estrazione capitalistica.

Uno dei progetti che meglio incarna questa attitudine è LOL (Liberation of Lulz) (2018) di Deep Lab: un esercizio di gioco radicale in cui meme e cultura digitale venivano remixati in hack femministi, come chiromanti IA progettati per un divertimento sovversivo, capaci di tenere insieme critica e piacere. Questo tipo di gioco, per me, è una forma di ripristino del self-design. Come mostra l’“effetto ELIZA” (ossia la tendenza a proiettare caratteristiche umane sui sistemi automatici), descritto da Rob Horning14, il nostro rapporto con le macchine non è privo di proiezioni e illusioni. Il gioco interviene proprio qui: invece di rafforzare queste proiezioni, le rende visibili, smascherando l’interazione tecnologica attraverso una forma di roleplay consapevole, in cui l’utente riprende agency e distanza critica. Sempre in Alone Together (2017), le scie blu lasciate da un Roomba attorno al mio corpo diventano ostruzioni ludiche: producono un “non-selfie” di un corpo che non è più presente, e allo stesso tempo criticano l’isolamento indotto dalla tecnologia descritto dalla sociologa Sherry Turkle15. Qui il gioco agisce come resistenza perché umanizza, invita all’esplorazione della vulnerabilità e apre spazi di relazione dove prima c’era solo automazione.

Esplori spesso zone meno visibili del digitale, spazi considerati periferici o “non ufficiali”. Che tipo di esperienza estetica, o di ricerca, può nascere in questi luoghi? Offrono ancora scampoli di libertà rispetto a un web sempre più uniforme e commerciale?

I margini producono estetiche “glitchate” – effimere, non monetizzate – che emergono da flussi digitali criptati. Per margini intendo le darknet, le reti P2P dimenticate, le mesh grid16 allestite in magazzini abbandonati, o persino il lato nascosto delle blockchain e dei dataset utilizzati per addestrare l’Intelligenza Artificiale, che non arrivano mai nei feed mainstream. Sono le geografie irregolari di cui parlavo prima, luoghi che resistono all’uniformità patinata delle piattaforme commerciali.

Nel mio lavoro, esplorare questi margini non è solo una pratica di ricerca: è una forma di insurrezione poetica. Qui l’estetica emerge grezza e non filtrata come paesaggi sonori effimeri generati dal traffico criptato, detriti visivi provenienti da flussi di dati corrotti, render allucinatori che glitchano in qualcosa di profondamente umano. Non si tratta di costruire una user experience levigata, ma di cercare la bellezza nella deviazione: forme frastagliate, provvisorie, che sfidano la richiesta algoritmica di continuità e perfezione.

Offrono ancora spazi di libertà? Assolutamente sì, anche se si stanno restringendo e sono sempre più sotto assedio.

In un web dominato da feed algoritmici – che, come osserva Rob Horning, «Importano bias e ci tentano con un’ottimizzazione passiva» – questi margini restano rifugi vitali. Consentono creatività non monetizzata, collaborazione anonima senza sorveglianza, ed esperimenti che sfuggono agli algoritmi a strascico.

Qual è la tecnologia che oggi senti come “poeticamente urgente” da esplorare?

L’Intelligenza Artificiale è urgente. È urgente perché mette in discussione le illusioni, le medie, e ci costringe a ripensare il sé come entità in rete. Ci obbliga a non considerarci più come creatori isolati, ma come nodi “glitchati” all’interno di reti vaste e distorte.

In questi sistemi, le “immagini medie” – per usare un’espressione dell’artista Hito Steyerl17appiattiscono le nostre realtà disordinate in mediocrità statistiche, mentre le dinamiche di manipolazione emotiva ci portano a proiettare sul codice un’idea di intenzionalità e sensibilità che non gli appartiene. L’urgenza, per me, sta proprio qui: sovvertire questi sistemi per recuperare un sé più umano e relazionale all’interno di un contesto tecnologico in continua accelerazione.

Cosa speri che giovani donne, creative e ricercatrici portino con sé dal tuo lavoro? E che tipo di rapporto con la tecnologia vorresti che si sentissero libere di costruire?

Spero che portino con sé audacia. Che costruiscano legami insorgenti e non abbiano paura di fallire. Il fallimento, per me, è l’unico modo che abbiamo per imparare a cambiare e ad adattarci.

Vorrei che usassero la tecnologia come un’estensione di sé, per spingere in avanti un futuro che credono davvero possibile. Che trovassero altre persone che cercano qualcosa di migliore e che rifiutano di accettare il presente che ci è stato dato così com’è.

 

  1. Nel contesto delle pratiche artistiche e digitali, mixare significa scomporre e ricombinare materiali esistenti – codice, immagini, linguaggi o infrastrutture – per modificarne il senso, l’uso o il potere simbolico. ↩︎
  2. Boris Groys è un filosofo e critico d’arte che ha riflettuto a lungo sul rapporto tra estetica, tecnologia e soggettività. In Self-Design and Aesthetic Responsibility, Groys analizza come, nell’era digitale, l’identità diventi un progetto estetico e politico, esponendo il sé a dinamiche di visibilità, riproduzione e responsabilità etica. Groys, B. (2008). Self-Design and aesthetic responsibility. E-flux Journal. Retrieved December 20, 2025, from https://www.e-flux.com/journal/07/61386/self-design-and-aesthetic-responsibility ↩︎
  3. La blockchain è una tecnologia di registrazione distribuita spesso associata a decentralizzazione e trasparenza. I freeport sono zone franche, spesso utilizzate nel mercato dell’arte, in cui le opere possono essere conservate senza essere soggette a tassazione o controlli doganali. Sono simbolo di opacità finanziaria, speculazione e disuguaglianza nell’economia globale dell’arte. ↩︎
  4. Duchampiano è un aggettivo che rimanda all’approccio concettuale di Marcel Duchamp: l’opera non risiede nell’oggetto, ma nel gesto e nel sistema di significati che mette in discussione. In questo senso, processi economici o finanziari possono diventare materia artistica. ↩︎
  5. Studi economici sulla disuguaglianza – a partire dai lavori di Thomas Piketty – mostrano come, nelle economie contemporanee, i rendimenti del capitale crescano più rapidamente dei redditi da lavoro, rafforzando meccanismi di accumulazione che escludono la maggioranza della popolazione dai benefici dei sistemi finanziari e culturali. Ref. Piketty, T. (2014). Capital in the Twenty-First Century. Cambridge, Massachusetts: Belknap Press of Harvard University Press. https://dowbor.org/wp-content/uploads/2014/06/14Thomas-Piketty.pdf ↩︎
  6. Nel progetto Alone Together l’artista modifica un robot aspirapolvere (Roomba) trasformandolo in uno strumento pittorico e critico. Wagenknecht carica pigmento blu (il famigerato International Klein Blue) nel Roomba, riprogrammandone il comportamento in modo che distribuisca colore invece di aspirare. Si sdraia nuda su una tela bianca, mentre il robot gira intorno seguendo il suo algoritmo. Il Roomba non “sente” il corpo ma lo evita come ostacolo, mappando il territorio fino a coprire la superficie circostante. Il risultato è una pittura dove il corpo non appare come presenza, ma come assenza di colore, un vuoto che disegna la forma femminile attraverso la traccia lasciata dal robot. ↩︎
  7. Gli hack incarnati sono pratiche artistiche e critiche che utilizzano il corpo come strumento di intervento sulla tecnologia, mettendo in evidenza come i sistemi digitali influenzino l’esperienza fisica, emotiva e relazionale. ↩︎
  8. Con “macchine poetiche di Lovelace” si intende l’idea di Ada Lovelace secondo cui le macchine di calcolo possono operare non solo su numeri, ma anche su simboli, relazioni e forme creative, aprendo la possibilità a usi immaginativi e non puramente funzionali della tecnologia. Ref. Lovelace, A. A. (1843). Notes by the translator. In L. F. Menabrea, Sketch of the Analytical Engine invented by Charles Babbage (pp. 691–731). Richard and John E. Taylor. https://johnrhudson.me.uk/computing/Menabrea_Sketch.pdf
    (Originale pubblicato nel 1843 in Scientific Memoirs, Vol. 3) ↩︎
  9. Con “rivoluzioni codificate dalle donne dell’ENIAC” si fa riferimento al contributo pionieristico delle prime programmatrici del computer ENIAC, il cui lavoro ha definito concetti fondamentali della programmazione moderna, a lungo esclusi dalla narrazione ufficiale della storia dell’informatica. Ref. Kleiman, K. (2022). Proving ground: The untold story of the six women who programmed the world’s first modern computer. Grand Central Publishing. ↩︎
  10. La bro-culture è un modello culturale diffuso nell’industria tecnologica caratterizzato da ambienti dominati da uomini, spesso bianchi e occidentali, che valorizzano competizione, aggressività, sicurezza ostentata e successo individuale, producendo ambienti poco inclusivi e marginalizzando prospettive diverse. ↩︎
  11. Il concetto di self-design indica il processo attraverso cui individui e collettivi progettano la propria identità all’interno di sistemi tecnologici, sociali ed economici. In chiave critica, solleva interrogativi su autonomia, controllo, mercificazione del sé e responsabilità etica. ↩︎
  12. I freeport sono zone franche di stoccaggio ad alta sicurezza in cui beni di valore possono essere conservati o scambiati senza tassazione, spesso associate a opacità e speculazione nel mercato dell’arte. ↩︎
  13. Nella teoria sociale, agency indica la capacità degli individui di agire intenzionalmente, di compiere scelte autonome e di influenzare o trasformare le strutture sociali all’interno delle quali sono inseriti. Ref. Giddens, A. (1984). The Constitution of Society: Outline of the Theory of Structuration. Cambridge: Polity Press. ↩︎
  14. L’ELIZA effect descrive la tendenza umana ad attribuire intenzionalità, emozioni o coscienza a sistemi tecnologici che in realtà operano tramite risposte automatizzate. Rob Horning utilizza questo concetto per criticare le illusioni proiettate sull’intelligenza artificiale e sulle tecnologie conversazionali. ↩︎
  15. Sherry Turkle è una sociologa e psicologa statunitense che ha studiato l’impatto delle tecnologie digitali sull’identità e sulle relazioni. I suoi lavori analizzano come l’iper-connessione possa produrre nuove forme di isolamento e fragilità emotiva. ↩︎
  16. Questi termini indicano infrastrutture digitali alternative o meno visibili: le darknet sono reti accessibili solo tramite software specifici, spesso associate alla privacy e all’anonimato; le P2P (peer-to-peer) sono reti decentralizzate in cui gli utenti condividono direttamente risorse; le mesh grid sono reti distribuite senza un centro, spesso utilizzate in contesti di autonomia tecnologica. ↩︎
  17. Hito Steyerl è un’artista e teorica che ha analizzato la cultura visiva digitale. Con “immagini medie” si riferisce alla tendenza degli algoritmi a produrre rappresentazioni standardizzate, statistiche, che appiattiscono la complessità dell’esperienza umana. ↩︎

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