Carə lettorə,
come rispondi al “come stai”? “Bene” o “male”, con a seguire, per spiegarlo meglio, una sfilza di azioni compiute o subìte?
A volte capita, di tracciare un bilancio, una tabella, con una bella linea sotto con un segno “più”, “meno” o “uguale”. Ogni azione per un obiettivo, fosse solo respirare per sopravvivere: ci riesci, “più”, non ci riesci, “meno”.
È l’altra faccia della cultura del progetto: se (quasi) tutto è possibile purché sia quantificabile, ci tocca solo eseguire il programma per realizzarlo e monitorare in tempo reale il raggiungimento dei risultati. La performatività, intesa come l’ottimizzazione del rapporto input-output, è stata definita una delle caratteristiche de La condizione postmoderna, ormai 45 anni fa.
Ma chi scrive il programma? Chi ha stabilito questi obiettivi? Tu? La società? Entramb3? Nella tecnica, spiega Treccani, performance è “il rendimento di una macchina”, nel linguaggio pubblicitario “l’affermazione di un prodotto”, nello sport il “risultato di una competizione”. A volte capita, di sentirsi un po’ macchina, un po’ prodotto ma comunque in competizione anche solo per sopravvivere.
Sottotraccia ma neanche troppo, il riferimento è sempre a una logica prestazionale e, in fondo, di guerra: vieni, vedi, funziona, mostra, vinci. In questa logica, anche l’esibizione artistica diventa un “fare” per “ottenere” (l’approvazione e/o l’attenzione altrui).
Eppure. La performance deriva dall’arte, da quel mettere (e mettersi) in scena per esprimere ed esprimersi che ci accompagna da sempre, dalle maschere e i ritmi dei riti dionisiaci da cui è nato il teatro occidentale più di 2500 anni fa. Un mettere (e mettersi) in scena che, più la società si è complessificata, più ci ha spinto a riflettere sulla differenza tra dimensione pubblica e privata. Solo nel 1900, la letteratura di Pirandello, l’antropologia di Turner, la sociologia di Goffmann e la filosofia di Butler hanno analizzato, con linguaggi diversi, questa tensione, tra quello che ci viene chiesto e quello che vorremmo, essere e fare.
E mentre le scienze umane e la letteratura si rivolgevano al teatro per descrivere la vita, il teatro entrava nella vita quotidiana con gli happening, eventi irripetibili e fugaci nati negli anni Sessanta in cui il pubblico era chiamato a partecipare, agire, performare, “senza copione”, con mente-corpo e sensi accesi.
È lo spirito disarmato con cui, qui in Mangrovia, abbiamo declinato questo mese dedicato alla performance: un “uscire dalla tabella” cercando di trovare storie e spazi in cui continuare a respirare insieme per il piacere di farlo.
In tutto questo tempo, lo abbiamo capito: noi esseri umani non possiamo essere se non interagendo, esprimendoci e manifestandoci quando e dove ci sentiamo riconosciut3 e accolt3. La speranza è quindi sempre quella di provare ad allargare questo spazio, fuori e dentro, con sguardo e cuore aperti verso l’inatteso. Perché non tutto ciò che conta può essere contato.
Grazie di esserci. Buon viaggio!