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Gli esports che allargano la partecipazione

Diverse abilità in campo per riscrivere il concetto di performance

Marta Abbà
una storia scritta da
Marta Abbà
 
 
Gli esports che allargano la partecipazione

Un’opportunità per dare il meglio, un modo per imparare cose utili, un mondo da ritrarre da vicino per raccontare meglio il rapporto tra tecnologia e persone: storie di chi trova negli esport una nuova definizione delle proprie performance

Non è per forza legata alla vittoria, non è condizionata dal giudizio altrui, non è motivo di ansia. Per Christian Peron, la performance è impegno, grinta, sentirsi in gioco, poter competere. Vincere? Non per forza. Ci tiene ma, a fine partita, qualsiasi sia il punteggio, ciò che si chiede è: «Davvero ce l’ho messa tutta?» Una domanda che fa a sé stesso, perché anche del parere altrui gli importa fino a un certo punto

Christian Peron

Giocatore sedicenne di esports, residente in Veneto. È entrato nel mondo esports da due anni: è la sua passione e sogna di farlo diventare il suo lavoro. Partecipa ai campionati di esports creative league (ECL) e i suoi giochi preferiti sono Fifa, GTA 5, Rocket league e Fortnite. Ama il calcio ma anche il basket e la bici, guarda le serie TV Manifest e Outer banks e ascolta volentieri Tony Boy e Ultimo.

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«Un tempo me la prendevo molto se ricevevo critiche, ora, se espresse con gentilezza, le accetto, perché per me conta solo sapere di aver dato il massimo» ci spiega con una voce concitata, che tradisce la sua passione per tutto ciò che è gara. Una passione che da sempre lo anima, ma che per molto tempo non ha potuto coltivare a causa della sua disabilità. Da due anni, ovvero da quando è entrato nel mondo degli esport, quando si collega, Peron prova un’autentica gioia nell’essere in squadra, nell’entrare in gioco come tutti e scherzare con i suoi compagni.

Il punteggio conta molto, ma «non è il metro di misura delle mie performance nel calcio elettronico, il mio sport preferito da sempre» confessa. «Con gli esports (contrazione di “electronic sports”, sport da praticare giocando ai videogame in modo professionistico, diventando veri e propri atleti) posso finalmente esprimere la voglia di competizione che mi pulsa dentro».

La mia performance consiste nell’allenarmi con tutto me stesso per fare bene qualcosa che mi fa stare bene.

Nelle parole di Peron il concetto di performance cambia forma, ma non perde forza, anzi, ne acquista, trasformandosi da sinonimo di mero punteggio o sterile sudata a simbolo di opportunità.

La bolla anti-ansia

Non è sempre stato così però: con tenacia, costanza e coraggio, Peron ha sovrascritto con la propria una definizione di performance che gli stava stretta. «Durante la prima partita, in serie D, ero agitatissimo, bloccato dalla paura di non giocare bene» racconta. «Ho superato l’ansia grazie al consiglio di un mental coach, che ancora oggi mi torna in mente nei momenti più critici: “Chiuditi in una bolla e pensa solo a ciò che sta succedendo in campo. Il resto deve restare fuori”. So che sembra una banalità, ma in certi momenti, è quello che ripeto a me stesso per dare il meglio».

Fondamentale per Peron è stato anche fissare obiettivi a breve, medio e lungo termine disegnando «un percorso che mi rende più sicuro e concentrato, nel gioco, a scuola e nelle relazioni con le persone dal vivo» racconta. «Vinco di più, ma sono cresciuto in generale». Uno step importante per un ragazzo giovane e con tutta la vita davanti, innescatosi grazie al caso, alla fortuna di aver incrociato uno streamer di Twitch che lo ha fatto avvicinare al mondo in cui Peron ha poi trovato nuove relazioni, supportato anche dalla famiglia, zio in primis. «È il mio primo fan, assieme a un amico che ha dovuto smettere e ci tiene che io vada avanti» racconta. «Mi alleno almeno 4 o 5 ore, c’è chi lo fa anche per 8 o 9: per giocare bene è necessario impegnarsi molto. È vero che per chi ha una disabilità, gli esports sono una opportunità, ma non ovvia e scontata».

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Giocando si impara a vivere

Le onde emotive create da Peron riecheggiano nelle attività di Fondazione ASPHI. Da un diverso punto di vista ma con medesima passione, questa Onlus dal 2015 studia e sperimenta tecnologie assistive per rendere accessibili e inclusivi esports a bambini, bambine e adulti con disabilità. «Possono offrire opportunità straordinarie per mitigare limitazioni motorie, sensoriali o cognitive e consentire a tutti di competere in condizioni di parità» spiega Nicola Gencarelli. Dallo scorso anno, è attiva una community dedicata, in cui operatori sociosanitari, famiglie e oltre 90 persone con disabilità motorie, cognitive e sensoriali condividono idee e punti di vista per creare esperienze di videogiochi sempre più accessibili e inclusive.

«Il videogioco diventa così uno strumento utile e innovativo» spiega Gencarelli «un “playground” aperto a tutti e soprattutto un potente volano per lo sviluppo dell’apprendimento, della partecipazione e della soddisfazione personale».

Nicola gencarelli

Pedagogista, è Responsabile della Ricerca Tecnologica per l’Innovazione sociale presso la Fondazione ASPHI Onlus. Da oltre 20 anni si occupa di ricerca applicata e sperimentazione di tecnologie assistive digitali e ausili per l’inclusione delle persone vulnerabili e con disabilità. Tra le iniziative più significative, Handimatica 2024 (Bologna, 28/30 novembre 2024)

Visita il sito ufficiale della Fondazione ASPHI Scopri Handimatica

Nulla a che vedere con lo sport, ma molto con le performance, con il poter dare una nuova forma agli orizzonti di bambini e bambine con disabilità che, appassionandosi agli esports, riescono ad apprendere o affinare l’uso di tecnologie digitali e assistive cruciali per la loro vita futura. Un esempio? Gli strumenti eye-gaze, che tracciano i movimenti oculari e permettono a chi ha gravi disabilità motorie di comunicare e, volendo, di poter usare sistemi domotici di controllo dell’ambiente domestico.

Con l’impegno tipico di chi vuole crescere, concentrandosi sulla performance del qui e ora come Peron, si può conquistare uno spazio di opportunità che rende più liberi di scegliere. In questo contesto, le nuove tecnologie vincono disparità e pregiudizi: anch’esse performano bene e, secondo Fondazione Asphi, in futuro potranno farlo sempre meglio. «Intelligenza artificiale e realtà aumentata miglioreranno ulteriormente l’accessibilità e la partecipazione» prevede Gencarelli. La mission principale di Fondazione è anche quella di disconnettere il concetto di performance dal raggiungimento di risultati straordinari e dall’eccellenza fisica e mentale, per renderlo «più vicino al quotidiano e radicato nell’esperienza umana, un’alternanza di vuoti e pieni, pause e ripartenze, accelerazioni e rallentamenti, forza e fragilità» spiega Gencarelli.

«L’attuale interpretazione di performance sottende invece un abilismo che esclude o sminuisce chi non può raggiungere quei livelli».

«Accade anche nelle Paralimpiadi: si esalta l’eccezionalità degli atleti con disabilità e le loro “imprese incredibili”, si sfrutta il loro sforzo e la loro resilienza per suscitare emozioni nel pubblico non disabile, generando pregiudizi nei confronti delle persone con disabilità che non diventano atleti, non lottano o non si “applicano” per diventare eroi. Chi non riesce, in qualche modo è come se fallisse e non meritasse attenzione».

Alcune foto della Fondazione Asphi. Tutti i diritti riservati. Riprodotte con il consenso di autori e autrici.

Uno sguardo diverso sulla performance

Per molti sportivi, con o senza disabilità, la performance non è legata solo al risultato competitivo, ma anche al desiderio di far parte di un’attività e di un pensiero comune, a una sana voglia di partecipazione, appartenenza e libertà. Accade molto più spesso di quanto sembri, ma per accorgersene serve un cambio di prospettiva non scontato né facile da compiere. Chi racconta il mondo dello sport con le immagini può favorirlo, o perlomeno suggerirlo, cambiando l’inquadratura e anche l’idea più comune e diffusa di performance.

Jacopo Scarabelli con i suoi scatti ci prova, proprio ritraendo gli esports e facendolo in modo del tutto unico e personale. Anche chi non ama o non conosce questo mondo “di smanettoni”, ne resta affascinato e incuriosito, guardandolo con gli occhi di questo fotografo che lo descrive come una fotografia virtuale (virtual photography).

«In una competizione, un giocatore ci mette tutto l’impegno che può, ma bisogna sempre considerare il fattore umano, soprattutto a livello psicologico ed è ciò che io desidero fare, anche se negli esports esiste una forte componente digitale» spiega Scarabelli.

«Accade similmente anche nell’arte della fotografia: prevale ancora il lato umano, nonostante la componente tecnologica»

Jacopo Scarabelli è un fotografo professionista. Formatosi nello studio fotografico di famiglia, dove ha anche gestito la transizione dall’analogico al digitale, nel 2008 ha iniziato a viaggiare per il mondo e a produrre progetti personali, con cui ha vinto una menzione agli International Photography Awards. Il progetto di fotografia documentaria a lungo termine “Play the game over” ha vinto diversi premi fotografici nella categoria “Sport” e nel 2023 è diventato un photobook, curato da Barbara Silbe e pubblicato da SelfSelfBooks, premiato come “highly commended” al Belfast Photo Festival 2023.

Scopri di più Scopri il progetto Play The Game Over

Per trasmettere «via immagini» una nuova idea di performance, Scarabelli va oltre all’azione sportiva – «la fotografia più banale da fare» – e gira attorno al soggetto per fotografarlo da prospettive più personali o raccontarne il contesto, «per stimolare riflessioni interessanti e proporre una narrazione differente». Ha scelto di non seguire la traccia ma di disegnarne un’altra, la sua, andando direttamente a casa dei gamers e ritraendoli nel loro quotidiano.

Cogliere in modo unico e autentico le performance di questi sportivi, significa spingere al massimo le proprie di fotografo: ci vogliono tempo e impegno, prima ancora ci vogliono la consapevolezza e la forza di scegliere un proprio metro di misura, anche se diverso da quello adottato da molti, per tacita convenzione. Tenacemente, Scarabelli sta provando a combattere una «mancanza di educazione all’immagine invece necessaria, perché ci aiuterebbe a riflettere in modo più completo sul mondo che ci circonda». Spiega: «Ho deciso di perseguire tematiche come il gaming per questo: è un mondo che racconta di una società in crisi di identità e non consapevole dell’utilizzo che si fa del web e dei social».

Quando gli si domanda se fotografando giocatori di esports con e senza disabilità, abbia notato differenze, risponde “no” e spiega perché. «Qui c’è la consapevolezza che un giocatore viene rappresentato da un avatar che non subisce la disabilità del giocatore stesso. Si è tutti allo stesso livello». Qui, quindi, la sua fotografia che lui stesso definisce «totalmente candida e spontanea» può performare al meglio. Qui Scarabelli si sente «libero di narrare senza porre l’attenzione sul giudizio, portando a una riflessione laddove manca. Negli esports ci sono ancora tanti i muri da abbattere e come fotografo voglio raccontarli in tutte le loro sfaccettature, per far sì che venga dato risalto al lato umano, liberandolo dai pregiudizi». Pregiudizi sulla vittoria a tutti i costi, per chi gioca, e sulla vittoria in tutti gli scatti, per chi la deve fotografare.

Foto di Jacopo Scarabelli, dal progetto “Play the game over”. Tutti i diritti riservati. Riprodotte con il consenso dell’autore.
 

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