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Empathy that saves the climate

How an NGO in Bali restores coral reefs and trust

Barbara D'Amico
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Barbara D'Amico
 
 
Empathy that saves the climate

Siamo abituati a raccontare il cambiamento climatico come un fenomeno divisivo che ha come protagonisti attivisti e menefreghisti. Un racconto da cui i sentimenti umani sono stati del tutto espulsi a favore di dati e fatti usati spesso, però, come armi per attaccare l’una o l’altra fazione, anziché come strumenti di comprensione. E se la chiave per metterci d’accordo stesse proprio nell’includere, anziché escludere, le emozioni che nascono da questa lotta? Dall’Indonesia una storia di ascolto e di empatia che ha molto da insegnare.

Paura, pessimismo, rabbia. Anche i sentimenti umani possono intralciare la lotta al cambiamento climatico. A meno che non vengano affrontati, diventando il carburante di cui quella lotta ha bisogno. È quello che sta provando a fare una ONG di Bali, in Indonesia, la North Bali Reef Conservation, che in otto anni è riuscita a combattere l’iniziale diffidenza di alcuni abitanti per ricostruire una porzione di barriera corallina. Il tutto puntando, oltre che su un buon progetto, su un approccio empatico per coinvolgere volontari e residenti.

Insegna e strutture della North Bali Reef Conservation. Foto di Barbara D’Amico. Tutti i diritti riservati. Riprodotte con il consenso dell’autrice.

Il timore del cambiamento

Anche se può sembrare controintuitivo – chi mai si opporrebbe a un progetto che fa bene all’ambiente? – tutti gli interventi che portano a vivere o sfruttare una porzione di mondo in modo diverso da quanto fatto fino a quel momento, possono generare timori o frizioni. Accade a Bali come in altre parti del pianeta: se hai sempre pescato in quelle acque o se per portare i turisti attraccavi vicinissimo alla costa, la prospettiva di cambiare abitudini o avere un gruppo di estranei, persino stranieri, che ti dicano che non si deve più fare, può scontrarsi con i tuoi radicati bisogni e le tue radicate abitudini (per quanto deleterie esse siano).

Forse il rapporto che abbiamo con l’ambiente ha poco a che fare con la natura in sé e molto più con le emozioni che proviamo quando entriamo in relazione, direttamente o indirettamente, con quell’oceano, quel bosco, quella montagna o quel fiume. Non pensiamo al fiume o al bosco, ma a come siamo abituati a (non) viverli o a (non) sfruttarli.

Piccoli di tartaruga embricata vengono liberati in acqua. Video realizzato da Barbara D’Amico. Tutti i diritti riservati. Riprodotto con il consenso dell’autrice.

Ripristinare fondali e fiducia

La vita marina non fa eccezione. Secondo i dati del Marine Ecological Research Management AID (MERMAID), parte del programma Ocean Deaced promosso dall’UNESCO e dalle Nazioni Unite, entro il 2050 il 90% dei coralli e delle barriere rischia di sparire per cause come inquinamento, sfruttamento, turismo irresponsabile. Un danno con effetto domino: questi ecosistemi garantiscono biodiversità, sostentamento per le creature marine e assorbono fino al 95% dell’energia delle onde proteggendo le coste.

«Quando abbiamo iniziato, l’area del reef (nella provincia di Tianyar a est dell’isola, ndr) era quasi interamente ricoperta di sabbia», spiega Ni Luh Putu Sukmawati (nome abbreviato Sukma), indonesiana di appena 23 anni ma già tra le coordinatrici del progetto co-fondato dallo scienziato marino Zach Boakes.

Ni Luh Putu Sukmawati

23 anni, è una volontaria della North Bali Reef Conservation.

«Il nostro obiettivo originale era ripristinare quest’area della barriera corallina costruendo barriere artificiali. Ora abbiamo realizzato e installato oltre 30.000 strutture artificiali e la maggior parte dell’area è stata ripopolata».

Zach Boakes

Co-fondatore della North Bali Reef Conservation, è uno scienziato marino la cui ricerca si è concentrata sui benefici ecologici, funzionali e socio-economici del ripristino delle barriere coralline a Bali, in Indonesia.

La trasformazione è documentata anche sul canale YouTube del gruppo. In circa tre anni il fondale è passato da desertico e sabbioso a vivo e colorato, pieno di pesci, stelle marine, alghe e vegetazione non solo bellissime da vedere ma fondamentali per proteggere il litorale, come confermato anche da diverse pubblicazioni scientifiche sottoposte a peer review (qui, qui e qui).

Ma questo è l’aspetto razionale della storia, quello che non spiega come sia possibile raggiungere un simile risultato. Anche il migliore dei piani, infatti, può fallire se non c’è dialogo con chi in quelle aree ci vive. Se non c’è immedesimazione anche nei panni di chi può non condividere una diversa visione dell’ambiente.

Oltre la trappola del cinismo

Difendere o no un tratto di costa, decidere o meno di costruire in un’area, disboscare o ripopolare, proteggere una specie pescata fino al giorno prima: sono tutti esempi di ciò che sociologi e psicologi comportamentali oggi fanno rientrare nei temi ad alta polarizzazione. Quelli, cioè, che più facilmente dividono in fazioni, scaldano gli animi e generano sentimenti negativi in tutte le parti coinvolte.

Jamil Zaki, professore di psicologia della Stanford University e direttore del Social Neuroscience Lab, ha fatto di queste polarizzazioni e dei sentimenti che generano in noi l’oggetto delle sue ricerche, arrivando a sperimentare l’applicazione pilotata dell’empatia e dell’ottimismo nelle mediazioni potenzialmente (o realmente) conflittuali.

Jamil Zaki

Professore di psicologia della Stanford University e direttore del Social Neuroscience Lab. Ha scritto Hope for Cynics e The War for Kindness.

«Uno dei miei studi preferiti di sempre è stato svolto nel sudest del Brasile», ha spiegato durante un TED Talks per raccontare quella che lui definisce la trappola del cinismo (l’intervento di Zaki è del 2021, in piena pandemia mondiale quindi non il massimo per l’umore globale).

«Il contesto era questo: due villaggi di pescatori separati da appena 30 miglia. Un gruppo viveva praticamente vicino all’oceano, dove la pesca richiedeva grandi barche e attrezzature pesanti. Per guadagnarsi da vivere, i pescatori dovevano lavorare insieme. L’altro gruppo invece si trovava vicino a un lago, dove i pescatori pescavano da soli su piccole barche, quindi entrando in competizione tra loro. Anni fa, i ricercatori hanno provato a fare un esperimento sociale, chiedendo a dei pescatori di andare a lavorare nell’uno e nell’altro gruppo. […] Ma ecco la parte pazzesca: […] pur partendo dalla stessa condizione di base, i pescatori del test si comportavano in modo diverso: più a lungo lavoravano con il gruppo del lago, più gareggiavano. Più a lungo lavoravano con il gruppo sull’oceano, meno erano competitivi».

Per Zaki questa differenza si spiega perché «i nostri mondi sociali ci modellano, come l’argilla, in versioni di noi stessi che sono o piene di speranza o ciniche».

I sentimenti giocano un ruolo molto più grande di quanto pensiamo e, secondo i risultati dei suoi studi, il cinismo è tra tutti il meno efficace perché genera scontro e fa perdere di vista l’obiettivo. Mentre l’empatia può creare un terreno neutro dove le parti possano ascoltarsi, garantendo risultati più sostenibili e solidi. La protezione dell’ambiente può non generare le stesse aspettative nelle persone coinvolte e spesso chi tiene di più alla sostenibilità sente la frustrazione di non riuscire a sensibilizzare di più, nonostante tonnellate di evidenze, dati, studi e buon senso. E se la ragione non c’entrasse proprio nulla?

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Il potere discreto dell’ironia

Anche Tianyar è un villaggio, proprio come quello dell’esperimento citato da Zaki, e per realizzare la versione artificiale della barriera, membri della ONG e volontari da tutto il mondo devono lavorare insieme ai pescatori. L’obiettivo è sfornare quanti più blocchi di calcestruzzo possibile ogni settimana, strutture che simulano la base di una barriera corallina. Di per sé, un’attività semplice, basta avere una cazzuola e un minimo di voglia di sporcarsi le mani, ma che sarebbe impossibile senza il supporto dei locali: ad esempio, per creare il composto da colare nelle forme scavate a terra, alzare i blocchi pesantissimi dagli stampi di sabbia e trascinarli poi in acqua. E poi, sono sempre i pescatori della zona a mettere a disposizione le loro imbarcazioni, delle lunghe e colorate barchette di legno a metà tra una feluca e un catamarano, per tuffare le strutture in mare.

“Sii il cambiamento di cui l’oceano ha bisogno”. Foto dei volontari della North Bali Reef Conservation impegnati nella creazione di blocchi di calcestruzzo destinati alle barriere coralline artificiali. Fonte: pagina Instagram della ONG @north_bali_reef_conservation (https://www.instagram.com/p/DDqTN8vy_v9/?img_index=1). Tutti i diritti riservati. Riprodotte con il consenso di autori e autrici.

«Stimerei che abbiamo ospitato oltre 1000 volontari dal 2017, che si sono uniti a noi per un periodo compreso tra 1 settimana e 6 mesi», dice Sukma. Il campo infatti può accogliere decine di persone per volta, anche se il calcolo è inutile farlo perché il flusso è continuo e dura da anni. Questo “tsunami” umano, proveniente da culture spesso molto diverse da quella balinese, potrebbe avere anche un impatto invadente se non gestito con il tatto e l’assenza di preconcetti che Sukma e il resto del team dimostrano ogni giorno sul campo.

I volontari della North Bali Reef Conservation mentre trasportano i blocchi di calcestruzzo. Fonte: pagina Instagram della ONG @north_bali_reef_conservation (https://www.instagram.com/p/DBdcU52Pn0-/?img_index=1). Tutti i diritti riservati. Riprodotte con il consenso di autori e autrici.

Oggi molte persone della zona lavorano nel gruppo come cuoche e cuochi, driver, guide subacquee, commercianti. Ma all’inizio del programma, convincere i residenti della bontà del progetto, accettando culture esterne, non è stato semplice. Come hanno fatto i membri della ONG a passare loro il messaggio che ne sarebbe valsa la pena? «All’inizio abbiamo tenuto seminari con i pescatori locali e abbiamo spiegato come impegnarsi nel ripristino della barriera corallina avrebbe avuto effetti positivi diretti anche per loro», spiega sempre Sukma. «Non è stato un processo facile e c’erano sicuramente alcune persone contrarie al progetto, ma man mano che abbiamo iniziato a crescere, sempre più membri della comunità hanno iniziato a unirsi e a sostenerci».

«Ci assicuriamo che il nostro programma preveda un coinvolgimento diretto della comunità, in modo che siano le persone del posto a prendere le decisioni sulle attività di ripristino e a beneficiare direttamente dei risultati».

Anziché imporre il programma, questo è stato spiegato. Anziché escludere i pescatori, questi sono stati coinvolti per primi. Quando i ragazzi e le ragazze della ONG, tutti under 30, fanno le formazioni, sono rigorosi ma anche ironici. Cercano di coinvolgere facendo sentire tutti parte del gruppo ma con il massimo della flessibilità: nessun ordine, nessun giudizio e una comunicazione sempre aperta.

I volontari della North Bali Reef Conservation trasportano i blocchi di calcestruzzo sott’acqua. Fonte: pagina Instagram della ONG @north_bali_reef_conservation (https://www.instagram.com/reel/C800ZdhvEKE/?utm_source=ig_web_copy_link&igsh=MzRlODBiNWFlZA%3D%3D). Tutti i diritti riservati. Riprodotto con il consenso di autori e autrici.

Oltre i giochi a somma zero

Predisporsi in modo empatico anche verso chi sappiamo potrebbe osteggiarci è un atto di grande rispetto. Un atto inclusivo di sostenibilità. O, per dirla con le parole di Laurie Santos, professoressa di psicologia a Yale, una strategia per dissentire meglio.

Laurie Santos

Professoressa di psicologia a Yale e autrice di diverse ricerche scientifiche di comparazione cognitiva nonché creatrice del primo corso universitario al mondo dedicato alla ricerca della felicità.

«Quando ci troviamo in conflitto, tendiamo a vedere la soluzione come un gioco a somma zero», ha spiegato in una recente intervista rilasciata a FastCompany, «uno di noi vincerà e l’altro perderà. Tuttavia, spesso è possibile “aumentare la torta” trovando momenti in cui si può scendere a compromessi o negoziare». Una delle tecniche migliori per farlo è appunto instaurare un vero dialogo, come fatto da Sukma e dai volontari, ascoltare e immedesimarsi nella storia degli altri facendo domande, capendo come si sentono al riguardo. «Ricerche di esperti come Nick Epley (professore di scienze comportamentali dell’Università di Chicago ndr) e altri hanno dimostrato che ciò che è molto più prezioso è praticare il “perspective-getting”, che significa chiedere alle persone il loro punto di vista».

«Chiedi delle loro storie e dei loro valori e ascolti davvero le loro risposte».

L’immersione diretta per connettersi meglio

«Penso che il modo migliore per coinvolgere le persone nell’ambiente sia attraverso l’immersione diretta», dice Sukma. «Molte persone che vivono nei villaggi costieri non hanno mai fatto snorkeling per vedere le loro barriere coralline. Ciò crea una disconnessione, poiché le persone non sanno quanto sia bello il loro ambiente locale e in molti casi non sono quindi interessate a proteggerlo». Per questo la ONG sta cercando di incoraggiare sempre più giovani del posto a tuffarsi in mare e a scoprire cosa c’è sotto la superficie, «in modo che anch’essi siano ispirati a proteggere il loro oceano». Con empatia, ironia, umiltà. Sentimenti che sono un carburante pulito e sostenibile per chiunque.

 

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