Il cane Argo riconosce Ulisse anche sotto mentite spoglie: cosa ha visto? Il progetto dell’artista Paolo Bufalini, prodotto dall’organizzazione culturale Sineglossa, unisce lo spazio latente dei sogni a quello informatico, in cui le Intelligenze Artificiali generano le immagini a partire da dati non interpretabili e non controllabili. Uno spazio del verosimile, a metà tra quello che è successo e quello che avrebbe potuto o potrà essere, che rilancia la domanda su quanto il racconto del nostro passato sia una performance. Lo abbiamo incontrato.
Aperto 24 ore su 24, sette giorni su sette: il mantra del capitalismo contemporaneo è l’ideale di una vita senza pause, attiva in qualsiasi momento del giorno o della notte, in una sorta di condizione di veglia continua globale, in cui il pubblico invade il privato e il sonno è rinnegato1. Quanto performiamo nei nostri sogni? Come si mescolano, nel sonno, immaginazione e realtà?
Il verosimile della condizione onirica è al centro del progetto espositivo Argo di Paolo Bufalini, a cura dell’organizzazione culturale Sineglossa, realizzato con il sostegno di SIAE e Ministero della Cultura, nell’ambito del programma Per Chi Crea, in mostra fino al 5 dicembre al Palazzo Ducale di Genova e poi dal 12 al 15 dicembre alla Fondazione Home Movies – Archivio Nazionale del Film di Famiglia di Bologna all’interno della rassegna The Next Real. Undici poster per undici immagini realizzate con l’intelligenza artificiale generativa a partire dalla digitalizzazione di oltre 1300 foto di famiglia.
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Paolo Bufalini (Roma, 1994) è un artista visivo che vive principalmente a Bologna. La sua ricerca, caratterizzata dalla crossmedialità e dalla marcata eterogeneità formale, trova nell’indagine delle relazioni tra profondità psichiche, temporali e materiali il suo motivo primario. Il suo lavoro è stato esposto in spazi istituzionali e indipendenti in Italia e all’estero, tra cui: Biennale di Gubbio; Dolomiti Contemporanee; Fabbri-Schenker projects, Londra; Raum, Bologna; Neverneverland, Amsterdam. Riconoscimenti e residenze recenti includono: SIAE – Per Chi Crea (2023); Premio acquisto Regione Emilia-Romagna (2020); Nuovo Forno del Pane (residenza), c/o MamBo, Bologna (2020). (ph. Jacopo Belloni)
Perché e cosa è Argo?
Argo, sin dal titolo, rappresenta l’idea di un viaggio: un viaggio indietro nel tempo e attraverso lo spazio della mia famiglia. È il viaggio che ho compiuto nel rivedere le foto di famiglia con i punti nodali delle vite dei miei familiari ed è anche il viaggio di Ulisse nell’inconscio tecnologico, attraverso quello spazio contenente dati non direttamente interpretabili (in informatica latent space) su cui i modelli generativi elaborano le immagini. Il momento in cui Argo, il cane di Ulisse, riconosce il padrone anche se ha delle sembianze diverse, mi è sembrato significativo rispetto al sistema di intelligenza artificiale generativa che avrei usato. Un sistema di mediazione in grado di riconoscere, ma non di “vedere”, le sembianze delle persone in foto, secondo un ordine di conoscenza diverso da quello di noi esseri umani.
Qual è stato il processo che ha portato alla generazione delle immagini?
Ho scansionato circa 1300 foto di famiglia, in un arco temporale che va dagli anni Cinquanta ai primi anni Duemila. Il primo passaggio è stato dividere e classificare le immagini, per trovare quelle potenzialmente utilizzabili, che ritraevano soggetti ben riconoscibili. A questo punto, ho riallenato dei modelli generativi text-to-image preesistenti, in modo che fossero in grado di riprodurre verosimilmente le sembianze dei miei genitori e di mia sorella a partire da una mia richiesta testuale, e di contestualizzarli in nuove immagini. Ho utilizzato tra le dieci e le trenta foto per ogni modello e ne ho allenati una ventina, cioè almeno sei-sette modelli per ogni soggetto.
Per la generazione vera e propria ho usato una node-based interface2, attraverso cui ho definito i parametri generativi e le caratteristiche di ciò che volevo rappresentare, ad esempio l’immagine di mio padre, specificandone in dettaglio le caratteristiche – indumenti, posa, luce, inquadratura. Oltre alla richiesta testuale, in gergo il prompt, ho agito su una serie di parametri tra cui, per fare solo alcuni esempi: il grado di aderenza dell’immagine da generare rispetto alla richiesta, il numero di iterazioni necessarie all’elaborazione3, la tipologia di campionamento dei dati. È stato un lavoro molto metodico ed empirico in cui, ad ogni generazione di immagine, variavo leggermente uno dei parametri per vedere cosa succedesse.
Ho strutturato i prompt secondo uno specifico ordine. Ad esempio, per generare una foto che avrebbe ritratto mio padre:
“MBY” (nome unico del soggetto, in questo caso Marcello Bufalini Young), “man” (categoria di riferimento) e “eyes closed” sono stati sempre i primi tre elementi a cui seguivano le parole di descrizione dello scenario: tipologia di indumento, capigliatura e luce, tipo di inquadratura e a volte anche i nomi di pellicole cinematografiche o fotografiche per indirizzare l’estetica dell’immagine.
Le immagini che ho ottenuto hanno spesso, volutamente, la parvenza di still cinematografici o di scatti analogici. Non solo: dato che è stato impossibile pulire lo scan alla perfezione ad ogni nuova scansione, gli stessi granelli di polvere, così come eventuali graffi o macchie sulle fotografie, sono stati inglobati nel training dei modelli come fossero connotati inerenti ai soggetti ritratti. Le immagini ottenute , anche per questo, hanno un sapore marcatamente analogico.
E perché hai scelto di generare solo figure dormienti?
Da tempo sono interessato al sogno in quanto spazio in cui si mescolano pezzi di realtà diversi: una forma di condensazione analoga al processo con cui ho realizzato le immagini a partire dal materiale biografico, che si è mescolato alla rielaborazione dell’intelligenza artificiale generativa e ai paradigmi visuali già compresi nei modelli che ho modificato.
Il sonno, inoltre, è il momento in cui un soggetto è al tempo stesso presente e assente, sospeso in una realtà che lo libera dalla performance. Già prima del progetto Argo, nel 2020, l’installazione Proposal ha messo in mostra il movimento sincronizzato di due cuscini, nella simulazione di respiro regolare, lento e silenzioso che dalla persona è rimasto sugli oggetti. Lo sviluppo di quel lavoro ha coinciso, casualmente, con la lettura di 24/7 (Einaudi, 2015) del critico d’arte Jonathan Cray: un libro che parla di come, nella contemporaneità tecnologica e capitalistica, il tempo del sonno sia sempre più eroso a partire dalla troppa luce che ci sveglia, prima fra tutte quella degli schermi dei cellulari, dei lampioni e dei televisori. Dobbiamo restare svegli perché nel tempo del sonno non performiamo e non produciamo e non consumiamo. Sebbene questo aspetto non sia strettamente inerente ad Argo, mi interessa pensare al sonno come a uno spazio in cui, proprio in ragione del bassissimo coefficiente di performatività, l’identità si sfalda, si rende più malleabile.
Il sonno è indagato, oltre che come momento di assenza o riduzione della performance che ci caratterizza da svegli , come momento di vulnerabilità, di intimismo e di privato, e in questi e altri progetti recenti è sempre in relazione con la tecnologia.
Proposal stessa tiene insieme questi due elementi: l’intimismo del respiro corporeo e il modo sintetico con cui è stato inscenato.
In questo senso, in Argo, l’idea di ritrarre tutti i soggetti come dormienti, è in grado, per me, anche di esentarli dall’identità, rendendoli pure immagini e tendendo alla smaterializzazione e all’impersonalità delle icone. Per le stampe ho scelto una carta cotone di grana media, che le rende più morbide e leggermente materiche, coerentemente con le sfumature proprie delle immagini e con le transizioni estremamente continue tra parti diverse dell’immagine stessa, come ad esempio il cuscino e il viso, che a tratti sembrano confondersi l’un l’altro, tendendo all’indeterminatezza e all’astrazione.
Al centro della mostra c’è un’opera scultorea con delle ampolle. Cosa rappresentano?
Le due ampolle contengono un liquido verde fluo che vortica al loro interno grazie a due generatori di campo elettromagnetico. Il liquido interno è composto da gioielli di seconda mano, due orecchini e un anello d’oro, disciolti in una soluzione acida che ho realizzato in collaborazione con il Dipartimento di Chimica dell’Università di Torino e il ricercatore Andrea Jouve.
Il processo è chimico ma allo stesso tempo rimanda ai principi alchemici della rigenerazione e della circolarità potenzialmente infinita: dalla soluzione verde fluo che si trova nelle ampolle sarebbe possibile estrarre di nuovo l’oro solido, sebbene non più nella forma originale e con la stessa ambiguità delle immagini di Argo, che sono basate su dati reali ma trasfigurate nella loro forma.
Ho scelto l’oro per questa sua capacità di “rigenerarsi” e di racchiudere varie idee di valore: alchemico, affettivo, economico, simbolico, persino elettrico. Sono stato ispirato dal famoso aneddoto storico4 dei due premi Nobel Max von Laue e James Franck, che riuscirono a proteggere le loro medaglie dalla depredazione nazista sciogliendole in acqua regia per poi rifonderle. Se ci pensiamo, i gioielli d’oro sono sempre stati cimeli di famiglia da tramandare di generazione in generazione e rimandano ancora una volta a una questione identitaria. Le schede grafiche utilizzate nelle GPU di IA generativa, d’altra parte, sono spesso in oro, data l’alta conduttività del materiale. In qualche modo l’oro fa parte di un contesto materiale che partecipa alla genesi delle immagini stesse.
Mi piaceva, inoltre, l’idea di avere in mezzo alle immagini di dormienti qualcosa che rendesse un’attività, interpretabile in più modi: il processo onirico di chi sta sognando o il processo di generazione delle immagini stesse.
Un’ultima curiosità sulla mostra?
Nelle immagini di Argo si intrecciano, tra gli altri, due elementi radicalmente diversi: la dimensione privata del sonno e i codici visivi delle foto di famiglia. Sono scatti in cui la componente performativa – la posa, il sorriso – si alterna a una forte spontaneità e all’innocenza, elementi tipici della fotografia amatoriale. Chiaramente si facevano meno foto di oggi, e le persone venivano spesso ritratte nei momenti migliori e in occasioni di festa: un compleanno, un battesimo o una cena. Questo elemento, quasi onnipresente, del sorriso, si è poi riversato anche nella generazione delle immagini, in cui l’espressione è sempre lieta, rendendo questo sonno molto sereno, direi quasi sornione.
- V. anche Cray, J. (2015), 24/7, Einaudi ↩︎
- Una node-based interface è un software basato sui “nodi” di un grafo, ovvero un tipo di algoritmo che consente di descrivere le relazioni tra gli elementi in modo concatenato e lineare senza retroazioni o loop. ↩︎
- L’elaborazione di ciascuna immagine ha richiesto, in genere, tra i 15 e i 40 step ↩︎
- I fisici tedeschi Max von Laue e James Franck, entrambi vincitori del premio Nobel per la fisica rispettivamente nel 1914 e 1925, inviarono le loro medaglie d’oro, da 23 carati, all’Istituto di fisica teorica di Niels Bohr a Copenaghen, con l’intento di proteggerle dalle depredazioni naziste durante la Seconda guerra mondiale. George de Hevesy, con la consapevolezza che i nazisti erano per le strade di Copenaghen, sciolse le medaglie in acquaragia. La soluzione così ottenuta venne riposta su di uno scaffale nel laboratorio dell’Istituto di fisica di Niels Bohr. In seguito, a guerra finita, de Hevesy fece precipitare l’oro dalla miscela di acidi e lo inviò alla Nobel Society, che riuscì a rifonderlo e a dar vita nuovamente alle due medaglie che vennero consegnate, nel 1952, a Max von Laue e James Franck. Per approfondire: A unique gold medal. (n.d.). NobelPrize.org. https://www.nobelprize.org/prizes/about/the-nobel-medals-and-the-medal-for-the-prize-in-economic-sciences/ ↩︎