
Cosa succede quando un videogioco non ti chiede di vincere, ma di prenderti cura? Nei walking simulator e in Death Stranding di Hideo Kojima, il videogioco si allontana dalla logica dell’azione frenetica per abbracciare un’estetica della lentezza e della connessione. Ludopoiesi, Murray Bookchin ed ecologia sociale sono il fondamento teorico di queste pratiche che trasformano il gioco in nuovi ecosistemi da abitare, curare e immaginare.
Nel 2024, l’industria globale del gaming ha generato 182,7 miliardi di dollari e si prevede supererà i 188 miliardi nel 2025, con oltre 3 miliardi di persone che giocano nel mondo. In un panorama così ampio, non basta più chiedersi quanto si gioca: la domanda vera è perché e a cosa si gioca1.
Se certe forme di gioco riuscissero a farci rallentare, ascoltare e prenderci cura – non solo di un avatar ma delle relazioni che lo sostengono- potrebbero mutare il nostro modo di abitare il mondo? Non è uno slogan utopico: è ciò che una particolare costellazione di videogiochi ha iniziato a praticare, spesso ai margini del mainstream e molto prima che il grande pubblico se ne accorgesse.
Cosa sono i walking simulator e perché sono importanti
Il termine “walking simulator” (o “walking sim”) non nasce come etichetta nobile: sin dai primi anni 2000 è stato usato in modo sprezzante nei forum e nelle recensioni per indicare prodotti “non giocabili” perché troppo lenti ed estremamente contemplativi, delle vere e proprie simulazioni di camminata. Eppure, proprio da quella provocazione è emerso un genere oggi riconoscibile e con aspettative condivise: attraversare spazi per leggerne gli indizi ambientali, assemblare storie senza la spinta centripeta della sfida.
Secondo diversi studi, questa categoria non è definita da regole precise di design, ma dal modo in cui critici, sviluppatori e giocatori ne hanno parlato e continuano a parlarne. In questo senso, la “camminata” virtuale è diventata un’esperienza generica fatta di quiete, ambiguità poetica, quotidianità e auto-riflessività2.
I videogiochi che hanno dato il via a questo genere sono noti: Dear Esther (The Chinese Room, 2012) che ha segnato una rottura con l’estetica tradizionale o Proteus (Key/Compton, 2013) con il suo mondo da ascoltare più che da “conquistare”. In entrambi i casi la storia non scorre lungo missioni o livelli, ma si distribuisce nello spazio3.
Il sociologo Henry Jenkins sintetizzava questo cambio di prospettiva già nei primi anni 2000:
«I game designer non raccontano storie nel senso tradizionale, progettano mondi e scolpiscono spazi che rendono possibili molte storie»4.
Uno spostamento che è stato a lungo controverso perché i walking sim hanno catalizzato e riacceso un vecchio dibattito: conta di più la meccanica di un videogioco, ossia “cosa fai” a livello di regole e azioni, o la sua dimensione narrativa, ossia “ciò che vivi” e che trasforma l’esperienza di gioco in una storia? Una nicchia appassionata ha pian piano costruito dal basso una nuova grammatica e canone del “giocare” in cui l’abilità del giocatore non coincide per forza con la sua destrezza o punteggio. Basta guardare Reddit, dove si trovano le prime discussioni su Dear Esther e Proteus, e dove la lentezza viene difesa come scelta consapevole e non come limite5.

Ludopoiesi: giochi che mettono al mondo relazioni
La ludopoiesi è la pratica del giocare che “mette al mondo” relazioni, dove non solo vengono prodotti contenuti (oggetti, missioni…), ma emergono delle chiare connessioni tra l’ambiente e i corpi, tra noi e gli altri. Quando giochiamo, infatti, non siamo soli e non stiamo solo mettendo a frutto le nostre abilità, ma ci lasciamo andare entro un sistema che ha sì delle regole e una propria struttura ma è, allo stesso tempo, mutevole e relazionale6. Proprio come in un ballo: i passi si possono imparare, ma è solo nell’incontro con l’altro che nasce davvero la danza. Il termine è stato coniato nel 2014 dall’unione di due termini: dal latino ludo (“gioco”) e dal greco poiein (“creazione, produzione, generazione”), significando così “creazione attraverso il gioco”7. In questo caso, il termine “creazione” non indica solo quella di oggetti, ma l’instaurarsi di rapporti.
Tre titoli, in particolare, aiutano a capire come tutto questo prenda forma concreta nel linguaggio dei walking simulator.
Dear Esther8, il punto di partenza simbolico, è ambientato su un’isola desolata delle Ebridi e invita a esplorare scogliere, tunnel e rovine mentre una voce narrante sussurra frammenti di testo. Non ci sono enigmi da risolvere né obiettivi da raggiungere: ciò che accade è una lenta immersione in un paesaggio che diventa narrazione. L’assenza di sistemi competitivi e ricompense tradizionali trasforma il giocatore in interprete, aprendo un’esperienza di “ambiguità poetica” e senso dell’incompiuto.
Proteus, il videogioco che esce qualche anno dopo Dear Esther, (Ed Key & David Kanaga, 2013) radicalizza questo approccio. L’isola è ora procedurale, cioè non progettata manualmente dagli sviluppatori ma creata automaticamente ogni volta dal software secondo certe regole. I pixel vibranti, i suoni e le stagioni sono diversi in ogni partita e mutano con il semplice passaggio del giocatore. Qui non si estraggono risorse e non si costruisce nulla. Il paesaggio è un organismo sensibile che reagisce alla presenza del giocatore e il camminare è un atto di ascolto e coesistenza.
Infine, Walden, a game (USC Game Innovation Lab, 2017)9 esplicita con forza la dimensione etico-ecologica insita nel genere. Ispirato agli scritti del filosofo e scrittore statunitense Henry David Thoreau, il gioco invita a sperimentare uno stile di vita sobrio e contemplativo sulle rive del lago Walden. Qui la sopravvivenza non si misura nella quantità di risorse accumulate, ma nella cura del capanno, dell’orto e delle relazioni: il design non premia l’accumulo, ma la manutenzione e la qualità dell’esperienza.
Queste esperienze mostrano bene come la ludopoiesi riorganizzi due assi principali: il tempo e come si posiziona il giocatore. Il primo, perché diventa lento e fatto di pause significative. Il secondo, perché il giocatore smette di essere dominatore e si trasforma in co-abitante del mondo virtuale.
Dal dominio alla relazione: il videogioco nella visione di Murray Bookchin
Anche il pensiero dell’ecologia sociale si intreccia sorprendentemente bene con il mondo del game design. A elaborare questa idea è stato il sociologo Murray Bookchin10, che negli anni ’70 definì la natura non come qualcosa di separato da noi, ma come un tessuto di relazioni storiche e politiche. La sua tesi è chiara: l’idea di dominare la natura nasce dal dominio tra esseri umani11. In altre parole, se impariamo a costruire relazioni non oppressive tra di noi, potremo anche costruire un rapporto diverso con il pianeta.
Traslato nel mondo dei videogiochi, questo punto diventa cruciale: se un sistema di gioco ti premia per l’estrazione veloce delle risorse o l’ottimizzazione degli altri a tutti i costi – siano essi Non-Player Character (NPC), ambienti o persino giocatori – allora sta educando a una forma di dominio che riproduce logiche di sfruttamento. Al contrario, quando il design valorizza la cura, la cooperazione indiretta e la manutenzione delle infrastrutture condivise, produce una sensibilità ecologica. È in questa prospettiva che i walking simulator e le pratiche di ludopoiesi si offrono come veri e propri laboratori politici12. La lentezza che caratterizza il genere non è romanticismo, ma condizione necessaria per percepire le interdipendenze –umane e non umane – e per accettare che talvolta “giocare bene” significhi non accelerare, non dominare, ma mantenere insieme ciò che vive.

Meno proiettili, più ponti per Hideo Kojima
C’è un autore, nel mondo dei videogiochi, che ha fatto della lentezza, della connessione e della riflessione un manifesto creativo. È Hideo Kojima, mente dietro titoli che hanno trasformato l’idea stessa di cosa significhi giocare. Nel suo Death Stranding (Kojima Productions, 2019), il protagonista Sam Porter Bridges attraversa un’America post-apocalittica a seguito di un cataclisma, con il compito di ricostruire connessioni tra comunità frammentate. I giocatori mettono su ponti, rifugi e segnali per altri, in un sistema cooperativo asincrono che premia la cura e la solidarietà, non la violenza, una visione che Kojimadescrive come “da corde”, in inglese, strand, anziché “da bastoni”13.
Ma questa inclinazione verso la cooperazione non nasce con Death Stranding. In Metal Gear, Kojima ha rovesciato il paradigma del “tiro e spara” per trasformarlo in un gioco di infiltrazione basato sull’evitamento. L’obiettivo non è eliminare tutti, ma evitare lo scontro e muoversi in silenzio per restare invisibili. In questo gioco non conta la forza, ma la pazienza, la strategia, la sottrazione.
Kojima si è ispirato al film La grande fuga (1963)14 , in cui i protagonisti non combattono, ma cercano di evadere da un campo di prigionia con astuzia.
Più volte Kojima ha criticato il carattere ripetitivo dei videogiochi moderni e il loro ricorrente ricorso alla violenza spettacolare, formandosi personalmente sul campo e imparando «so many ways to kill people»15 così da non ripeterle più.
- Game World Observer. (2025, 26 giugno). Newzoo: In 2024, the global video game market generated $182.7 billion, which is below projections. Game World Observer. https://gameworldobserver.com/2025/06/26/newzoo-in-2024-the-global-video-game-market-generated-182-7-billion-which-is-below-projections ↩︎
- Montembeault, H., & Deslongchamps-Gagnon, M. (2019). The Walking Simulator’s Generic Experiences. Academia. https://www.academia.edu/69688469/The_Walking_Simulator_s_Generic_Experiences ↩︎
- Gli studiosi chiamano questo fenomeno “environmental storytelling” (in italiano, “narrazione ambientale”). Con questa tecnica che coinvolge non solo i videogiochi, ma anche l’arte e il cinema, gli sviluppatori comunicano trama e informazioni attraverso il contesto visivo e ambientale e non solo con dialoghi e testi. ↩︎
- Jenkins, H. (2004). Game Design as Narrative Architecture. Massachusetts Institute of Technology ↩︎
- Nel thread “History of the Walking Sim” (2018) gli utenti collegano esperimenti indie a pratiche di esplorazione senza obiettivi. (2020, June 23). The history of walking simulators – Part 1. Reddit.
https://www.reddit.com/r/truegaming/comments/hc663q/the_history_of_walking_simulators_part_1/ ↩︎ - Gadamer, H.-G. (1989). Truth and Method (2nd rev. ed., trad. J. Weinsheimer & D. G. Marshall). New York: Crossroad. https://web.education.wisc.edu/halverson/wp-content/uploads/sites/33/2012/12/gadamer.pdf ↩︎
- Fps, & Fps. (2020, September 18). Pseudo Game Jam – First person scholar. First Person Scholar – Weekly critical essays, commentaries, and book reviews on games. https://www.firstpersonscholar.com/pseudo-game-jam ↩︎
- Il sito ufficiale di The Chinese Room Ltd dove poter approfondire Dear Esther: https://www.thechineseroom.co.uk/games/dear-esther ↩︎
- Il sito ufficiale di USC Game Innovation Lab per saperne di più su Walden, a game: https://www.gameinnovationlab.com/walden ↩︎
- Murray Bookchin (1921-2006) è stato un filosofo e attivista statunitense, fondatore dell’ecologia sociale. Critico del capitalismo industriale e delle gerarchie sociali. ↩︎
- «L’idea stessa di dominare la natura nasce dalla dominazione dell’uomo sull’uomo». Bookchin, M. (1982). THE EMERGENCE AND DISSOLUTION OF HIERARCHY. Cheshire Books. https://files.libcom.org/files/Murray_Bookchin_The_Ecology_of_Freedom_1982.pdf (Original work published 1981) ↩︎
- Montembeault, H., & Deslongchamps-Gagnon, M. (2019). The Walking Simulator’s Generic Experiences. Academia. https://www.academia.edu/69688469/The_Walking_Simulator_s_Generic_Experiences ↩︎
- Kojima descrive “strand” come “thread” psicologico che evolve in legami e vincoli; aggiunge che i “like” premiano azioni utili agli altri, non la violenza, rendendo percepibile che ciò che fai per te aiuti anche gli altri. ↩︎
- In particolare in Metal Gear Solid V: The Phantom Pain, la sua presa di posizione diventa esplicita intenzione di non glorificare la violenza, «non stavo cercando di rappresentare la violenza. Volevo che i giocatori riflettessero su cosa essa sia». ↩︎
- Il «so many ways to kill people» di Kojima si riferisce a una critica rispetto a molti sviluppatori di giochi militari che non sanno nemmeno smontare o maneggiare un’arma, aggiunge poi che tutto ciò «kind of sad». ↩︎