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Intervista

Risolvere problemi, generare dubbi

Il metodo ironico e laterale di Caffè Design

Alessandra Navazio
una storia scritta da
Alessandra Navazio
 
 
Risolvere problemi, generare dubbi

Caffè Design non è solo un podcast ma una presa di posizione che parte da una critica all’autoreferenzialità del settore per mettere al centro l’ironia come leva critica, la curiosità come metodo e l’Intelligenza Artificiale come compagna di brainstorming. In vista della loro partecipazione al Creators Day di Bologna, il 13 giugno, abbiamo intervistato Giuliano Guarini per approfondire la loro visione del design come linguaggio e contaminazione dei saperi.

Nato per risolvere problemi, oggi il design è chiamato anche a far emergere domande. Non è più solo un processo orientato alla funzione, ma un atto critico, capace di mettere in discussione abitudini, linguaggi e sistemi. È in questo spazio ambivalente, tra la concretezza della soluzione e l’ambiguità della provocazione, che si muove il lavoro di Caffè Design, un progetto multicanale italiano, noto principalmente per il suo podcast omonimo e nato nel 2017 come reazione a un certo modo autoreferenziale e autocelebrativo di intendere il design.

La risposta di Giuliano Guarini, Ferdinando “Nanni” Esposito, Riccardo “Breccia” Cambò mette al centro l’ironia come leva progettuale, la curiosità come metodo e un certo grado di imprevedibilità nel processo creativo in cui anche l’Intelligenza Artificiale non è una minaccia, ma uno strumento capace di attivare nuove traiettorie di pensiero.

Un approccio che sarà al centro anche del loro intervento al Creators Day – l’evento gratuito (previa registrazione) organizzato da Delizia Media, che mette in connessione le organizzazioni culturali con il mondo dei nuovi media e della creazione di contenuti – dalle 9.30 alle 19.00 del prossimo 13 giugno, allo Spazio Bianco del DumBO di Bologna.
E dove Caffè Design sarà ospite per discutere di progettazione, comunicazione e immaginari contemporanei.

Caffè Design è un progetto editoriale e creativo fondato nel 2017 da Giuliano Guarini, Ferdinando “Nanni” Esposito e Riccardo “Breccia” Cambò. Nato come podcast per raccontare il design con ironia e spirito critico, nel tempo si è trasformato in un vero e proprio collettivo multidisciplinare. Tra contenuti digitali, oggetti provocatori e collaborazioni con brand, Caffè Design esplora i confini della comunicazione visiva e della progettazione contemporanea, rifiutando l’autoreferenzialità e mettendo al centro la curiosità, l’ironia e il dubbio come strumenti progettuali.

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Che cos’è per voi il design?

Non c’è mai una risposta esatta a questa domanda. Noi parliamo di design intendendo qualsiasi cosa, perché tendenzialmente qualsiasi cosa è progettata. Tutto ha un pensiero dietro ed è stato pensato da qualcuno per poi essere lavorato da qualcun altro. Anche nei prodotti apparentemente semplici c’è una mente progettuale. Per noi il design, quindi, abbraccia tutte le materie: dalla tecnologia all’innovazione, dal marketing alla strategia. Per questo potremmo quasi dire che è un linguaggio: un modo per comunicare qualcosa, che può passare attraverso un oggetto, una campagna, un brand, un’esperienza. Non si limita agli oggetti fisici, ma si estende anche all’intangibile. Tutto ciò che comunica un’intenzione o una visione, può essere design.

E, quindi, quanto è importante la versatilità per chi lavora in questo mondo?

Chi progetta dovrebbe essere spinto da una curiosità costante perché essere appassionati di molte cose è una risorsa. Ogni progetto richiede un approccio diverso: un giorno magari lavori con un’industria alimentare e il giorno dopo ti trovi a progettare una statua per uno spazio pubblico. È per questo che il designer è una figura trasversale, che si muove tra le discipline e deve saper cogliere le connessioni.

La contaminazione è un motore creativo, e spesso accade anche nei momenti inaspettati.

Noi, ad esempio, abbiamo coniato il termine di “procraspirazione”: una crasi tra procrastinazione e ispirazione che si realizza quando sei lì che procrastini, ma stai anche assorbendo stimoli che potranno tornare utili un domani. È una specie di serendipità continua alimentata dalle passioni personali, anche dai meme brutti su Instagram. Non è qualcosa che controlli, ma che accumuli. E progettare, in fondo, è questo: attingere da questo magma per risolvere un problema.

Il trio Caffè design durante una puntata del podcast (https://www.youtube.com/watch?v=7hKsQaS-QJ8&list=PLUI6kEyl9XbgW9D-sQLI-3e_TNWNcUIWt). Tutti i diritti riservati. Riprodotta con il consenso degli autori.

In che modo il design si relaziona con l’arte e con la tecnologia? Che cosa hanno in comune e in che cosa si distinguono?

Se dovessi tracciare una differenza netta, direi che la tecnologia inventa, mentre il design interpreta. La tecnologia cambia davvero la vita delle persone con innovazioni pratiche. Il design, invece, si inserisce su quei cambiamenti e li traduce, li rende accessibili e li comunica. Difficilmente inventa qualcosa da zero ma si adatta ai contesti. Può sembrare sempre uguale, ma assume significati diversi in base al luogo e al tempo in cui viene inserito. Questa è la sua forza comunicativa: non è tanto un’arte dell’invenzione, quanto dell’adattamento.

Rispetto all’arte, penso che ci sia una distinzione soprattutto nei margini di libertà: l’arte può permettersi molto di più, anche a livello concettuale. Il design invece deve spesso rispondere a problemi concreti. Sono materie affini, ma non tutti le vedono così: per alcuni il design è solo razionalità e problem solving. Io credo, invece, che siano entrambi legati da una questione centrale, che è quella della comunicazione. Il design fa parte, infatti, di un ecosistema espressivo che comprende anche cinema, letteratura e arti visive. È uno strumento comunicativo che può smuovere il pensiero, se non proprio produrre cambiamento sociale. Noi, come Caffè Design, stiamo cercando di andare proprio in questa direzione: progettare oggetti che pongano domande e che stimolino riflessioni. In questo senso guardiamo con interesse al collettivo MSCHF, che per noi è un punto di riferimento: riesce a stare tra arte e design commerciale, usando l’ironia per spostare il discorso e far nascere domande.

 

Quali sono, secondo voi, le domande più urgenti che il design dovrebbe sollevare oggi?

Il nostro compito non è solo trovare soluzioni, ma anche sollevare dubbi, provocare, far nascere domande.

È un modo per prendersi cura del pensiero degli altri e proprio qui entra in gioco, secondo me, la responsabilità etica del designer.

Credo che le domande più urgenti siano quelle sociali. Le questioni classiche, se vogliamo: la pace, la salute mentale, il lavoro o l’iper-produttività. Sono temi che riguardano tutti e tutte e che, per quanto se ne parli, non sono mai abbastanza raccontati. C’è ancora bisogno di un certo tipo di progettazione che sappia provocarli. E questo può avvenire attraverso oggetti, campagne, esperienze ma anche brand.

Ti faccio un esempio concreto. Durante la Design Week1dell’anno scorso, abbiamo collaborato con una catena di fast food a Milano. Ci avevano chiesto di realizzare un piccolo prodotto che avesse a che fare con il mondo del fast food e con il design. Il brief era piuttosto aperto, ma a noi interessava partire da una sensazione molto precisa: quella di sovraccarico che si prova proprio durante la Design Week, che è sempre un momento frenetico e pieno di stimoli, un’esperienza che mentalmente e fisicamente prosciuga. Questo stato mentale lo abbiamo messo in dialogo con l’idea stessa di fast food, che nasce per mangiare velocemente e non fermarsi. Da qui è nato il concept del nostro oggetto: un porta-menù da fast food, disegnato per essere indossato al collo, con gli alloggi per panino, patatine e bibita. È volutamente assurdo ed è un oggetto che sembra inutile. In parte effettivamente lo è, ma porta con sé anche il messaggio: siamo arrivati al punto in cui neanche sedersi a mangiare è più contemplato.

Porta-menù da fast food ideato per la Design Week dal trio. Tutti i diritti riservati. Riprodotte con il consenso degli autori.

Con questo progetto volevamo parlare di salute mentale, di città veloci e di produttività spinta all’estremo. E l’ironia è stata, di nuovo, il nostro modo di entrare in relazione con il pubblico e di stimolarlo. Come nell’arte, il nostro compito non è spiegare tutto: è “far scattare qualcosa”. Questo è un tema che ci sta a cuore e che approfondiremo dal vivo anche il 13 giugno, durante il Creators Day di Bologna.

Come vivete l’ingresso dell’Intelligenza Artificiale nel processo creativo?

Noi siamo apertamente degli AI enthusiast. Vediamo l’Intelligenza Artificiale come uno strumento potentissimo, anche destabilizzante, ma in senso positivo. Sta creando uno scompiglio necessario all’interno del nostro settore, perché permette finalmente di fare cose che prima erano impossibili.

Nel nostro lavoro la usiamo soprattutto nelle fasi preliminari: ci aiuta a visualizzare concept, a tradurre sketch in immagini più definite e a immaginare possibilità a partire da idee grezze. Ma la cosa più interessante è il modo in cui l’AI interpreta ciò che le dai in pasto: a volte fraintende, a volte esagera e altre volte inventa completamente. È in questo scarto che spesso si accende qualcosa di nuovo: succede che chiedi “A” e l’IA ti restituisce “A + B”, e quel “B” può diventare l’innesco per una discussione, un’altra idea o un’intuizione. Per questo la consideriamo una sorta di “amico di brainstorming”. L’IA ha sempre la risposta pronta e ti costringe a prendere posizione.

La usiamo anche per scrivere video, fare ricerche ed esplorare riferimenti. Naturalmente serve sempre un doppio controllo perché a volte s’inventa letteralmente le cose. Ma anche questo ha una sua utilità creativa, se gestito con attenzione.

Capisco chi ha paura. Negli ultimi mesi ci hanno scritto diversi ragazzi, con la voglia di iscriversi a un corso di design e che avevano una preoccupazione forte: «Ha ancora senso studiare design se c’è l’IA?». La mia risposta è sì, assolutamente sì. Anzi, forse adesso ha ancora più senso. Perché l’Intelligenza Artificiale sta finalmente chiarendo cos’è davvero il lavoro del designer. Non è disegnare, o almeno non solo. È pensare e mettere punti di vista e consapevolezza nelle cose. L’IA smaschera l’idea che il designer sia solo chi realizza operativamente un output. Il cuore del design è nel progetto, nell’intenzione e nel senso. È lì che serve l’essere umano e in questo senso, per noi, l’IA non sostituisce ma amplifica.

Secondo voi, quale sarà il prossimo tabù che il design dovrà affrontare?

Secondo me è proprio il tabù dell’IA, ovvero accettarne la presenza, capirne le potenzialità e i limiti, senza farsi paralizzare dalla paura. Ma soprattutto il fatto che questa convivenza non avrà mai una forma definitiva perché l’evoluzione dell’IA è rapidissima: cambia ogni tre mesi diventando più potente e più sofisticata e obbligandoci continuamente a riposizionarci e non ci sarà mai un momento in cui potremo dire: «Ecco, adesso l’abbiamo capita del tutto».

Io sono appassionato di fumetti, e spesso penso che il rapporto tra esseri umani e IA somigli un po’ a quello tra umani e mutanti negli X-Men: un tentativo perenne di convivenza, con tutte le sue tensioni, paure, fazioni ed entusiasmi.

 

  1. Settimana internazionale del design, composta da una serie di eventi, installazioni e mostre che si svolgono in città come Milano, in parallelo al Salone del Mobile. È uno dei principali appuntamenti mondiali per la cultura del progetto, dove aziende, studi e creativi presentano idee, prodotti e riflessioni sui linguaggi e le tendenze del design contemporaneo. ↩︎

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