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E se non ci fossero le stelle?

Un esperimento controfattuale per capire chi siamo

Alessandra Navazio
una storia scritta da
Alessandra Navazio
 
 
E se non ci fossero le stelle?

Come l’osservazione delle stelle ha plasmato il corso della storia umana? Saremmo ciò che siamo in un mondo senza stelle? Roberto Trotta risponde a queste domande in Starborn – How the stars made us – (and who we would be without them), un saggio che sa di poesia.

«Si dice che siamo fatti di polvere di stelle: gli atomi del nostro corpo sono stati creati nelle fornaci atomiche di stelle morte da tempo. Ma soprattutto, il semplice fatto di poter vedere le stelle, adorarle, studiarle è l’ingrediente segreto che ci ha reso ciò che siamo oggi»1. Il professore di fisica teorica e cosmologo Roberto Trotta alle stelle deve tanto: dalla ricerca accademica all’incontro con quella che diventerà sua moglie. «Avevano guidato silenziosamente la mia vita. Quanto, mi chiedevo, avevano guidato il corso dell’umanità?»2. Per rispondere a questa domanda, nel suo ultimo saggio Starborn – How the stars made us -(and who we would be without them) (2023), inventa Caligo: un mondo senza stelle, simile alle città inglesi della seconda metà del XIX secolo o alle isole danesi Faroe d’inverno.

Le notti senza luce di Caligo

Roberto Trotta è professore di Fisica teorica alla SISSA, dove è responsabile del gruppo di Scienza e Teoria dei Dati, e visiting professor di Astrostatistica all’Imperial College di Londra. La sua ricerca si concentra su cosmologia, apprendimento automatico e scienza dei dati, con applicazioni alla cosmologia dell’universo primordiale, e lo studio della materia e dell’energia oscure. È stato insignito della Cattedra Lemaître 2018 dell’Università di Louvain per il suo lavoro sull’astrostatistica. Autore e comunicatore scientifico pluripremiato, ha ricevuto la medaglia Annie Maunder 2020 della Royal Astronomical Society per il suo impegno pubblico. Il suo ultimo libro, STARBORN, è stato nominato Book of the Week dalla BBC.

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«Nessuno su Caligo ha mai visto una stella» scrive Trotta. Caligo in latino significa nebbia o foschia: è una Terra immaginaria e controfattuale, coperta da un costante strato di nuvole3 che la colora di grigio e non rivela mai cosa c’è al di là: il cielo azzurro, le stelle, il Sole e la Luna. Caligo è un pianeta difficile da trovare in natura perché, se esistesse, «le sue condizioni di partenza non permetterebbero all’essere umano di nascere»4. Trotta lo crea, allora, con un esercizio di pensiero che vuole rispondere alla provocazione del fisico e matematico Henri Poincaré, che ne Il valore della scienza (1905) scriveva: «Pensate a come sarebbe ridotta l’umanità se, sotto i cieli costantemente oscurati, come deve essere quello di Giove, fosse rimasta sempre all’oscuro delle stelle. Pensate che in un mondo del genere noi saremmo ciò che siamo?»5. La risposta che percorre tutto il saggio, un “saggio poetico” che intermezza alle parti più scientifiche i Racconti di Caligo, è che no, non saremmo ciò che siamo. E questo a partire dal sottile equilibrio di determinismo e caso che regna nel campo dell’evoluzione biologica.

Infatti, spiega Trotta, se ci fosse, lo schermo luminoso delle nuvole di Caligo modificherebbe la traiettoria dell’evoluzione biologica in molti modi: avrebbe spinto molti più esseri viventi ad adattarsi alla mancanza di luce con occhi più grandi, udito ed olfatto eccezionali, capacità di orientamento tramite sonar; avrebbe favorito un ecosistema di piante in cui la fotosintesi a bassa energia è più efficiente, come le latifoglie e le alghe oceaniche. Avrebbe insomma abilitato troppe differenze rispetto a quel caso fortuito in cui «il fiore dell’Homo sapiens, un germoglio sull’imprevedibile cespuglio della vita» è «sbocciato nella notte ed è stato aperto dalla luce delle stelle»6.

Cinquantamila anni fa: dalla comparsa dell’Homo Sapiens, le traiettorie di Caligo e della Terra divergono. E da questo preciso punto dell’“imbuto della storia” che, alla prosa scientifica, si affiancano i Racconti di Caligo, per proiettare chi legge nel passato e incontrare personaggi come il Cercatore di Bisonti, il Guardiano del Fuoco e l’Osservatore delle Nuvole, mentre imparano a combattere gli Ingannatori malvagi e cercano di comprendere il funzionamento della Nuvola, il loro cielo senza stelle. Sotto la Nuvola solo i fulmini, bagliori venerati come qualcosa di magico e divino, riescono a illuminare la notte, qualcosa in cui è possibile perdersi, sia fisicamente, con il proprio corpo, sia interiormente, con la propria mente, come accade ad una delle protagoniste, Acquadolce, perché non ci sono le stelle a contare il tempo e a guidare nello spazio.

 

Perché le stelle hanno guidato l’Homo sapiens

«Si dice che alcune delle autostrade di oggi, tra cui la Victoria Highway del Nord o la Great Western Highway, ricalchino le dreaming tracks degli aborigeni7» scrive Trotta. Le dreaming tracks o soundline non sono altro che le mappature che anticamente abbiamo elaborato per orientarci di notte attraverso le stelle. «I Wardaman» scrive Trotta «memorizzavano il percorso associando le singole stelle a specifici punti di riferimento lungo la strada: un fiume attraversato, una pozza d’acqua, una curva della strada, una disposizione di pietre, un albero segnato. Il percorso immaginario che collegava le stelle rappresentava la strada che il viaggiatore avrebbe percorso sul terreno. […] Ogni viaggio aveva la sua linea di canto, che si snodava lungo la pista che collegava i punti […], un insieme rituale di indicazioni che creava un ponte cantato e vivente tra terra e cielo»8. Come le balene, quindi, che si orientano grazie alle linee magnetiche, o come gli stormi che per migrare verso climi più caldi, devono lasciarsi alle spalle la Stella polare, anche gli esseri umani hanno imparato a conoscere e riconoscere il cielo per orientarsi. Questo è parte di ciò che ci ha reso ciò che siamo.

Nel saggio Trotta sostiene l’ipotesi che la conoscenza del cielo abbia conferito un vantaggio ai Sapiens sulle altre specie animali, compresi i Neanderthal, meno esperti di stelle e costellazioni.

I primi Homo sapiens, infatti, usavano le stelle e i cicli lunari per pianificare gli eventi futuri e i cambiamenti stagionali e quindi avere maggiore cibo e possibilità di riprodursi. Le stelle sono state il primo kingmaker perché, scrive Trotta, «coloro che erano in grado di condurre infallibilmente la propria tribù al riparo seguendo le stelle, o di fornire in modo affidabile la carne durante la Luna piena»9 avrebbero assunto uno status più elevato all’interno del gruppo. Trotta cita, non a caso, l’antropologo Chris Knight10, per cui l’intera organizzazione sociale primordiale dei Sapiens potrebbe aver ruotato attorno al ciclo lunare e conclude il capitolo dedicato al “peso delle stelle” durante i primordi della storia umana con un tocco di poesia e suggestione che, come la luna, ciclicamente ritornano in tutto il testo. «Che le ipotesi di Knight sia corretta o meno, è suggestivo che ancora oggi la stessa antica radice “me-”, che significa “misurare”, leghi tra loro, in un flebile eco di associazioni perdute da tempo, le parole mese, pasto, mestruazioni e luna»11.

Perdere Prometeo

«In soli diecimila anni», scrive Trotta, «la scimmia nuda è riuscita ad andare sulla Luna».

«Ma quanto effimere le conquiste dell’umanità appaiono se considerate rispetto al tempo profondo che scandisce la vita dei pianeti e delle stelle?»12. La scienza e la vita moderne sono state costruite su basi astronomiche e sulla necessità di capire il nostro posto nel cosmo. La capacità dei primi esseri umani di guardare al sole, alla luna e alle stelle per collocarsi nel tempo e nello spazio terrestre ha portato senza dubbio – sostiene Trotta – a magnifiche invenzioni come l’astrolabio e il sestante, alle grandi menti di Copernico, Galilei, Laplace e Gauss, che hanno perfezionato il metodo scientifico, tracciato la linea per comprendere il moto dei pianeti e inventato nuovi modelli matematici e misurazioni. Non solo, ha dato il via allo sviluppo di tecnologie che proprio alle stelle si ispirano e che vogliono raggiungerle, non più per ammirarle ma per viverci accanto e dentro. Tuttavia, ammonisce Trotta, le stelle «non sono una via di fuga»13. Bisogna ritornare a guardare le stelle, senza puntarle in una corsa prometeica verso un nuovo mondo da abitare. L’invito del testo è, infatti, di rivolgere l’ingegno delle nostre menti alla ridistribuzione delle risorse sulla Terra e all’essere dei «buoni antenati» perché «è fin troppo facile dimenticare le stelle, nascoste alla nostra vista dall’inquinamento luminoso, costellate di satelliti artificiali o confinate allo fondo del desktop». Nel ritornare ad ammirare le stelle nella quotidianità e nelle notti d’estate, senza porle come fine ultimo della storia dell’umanità, c’è la soluzione per una Terra che assomiglia sempre di più a Caligo, sommersa da una coltre di nuvola tossica.

Ritornando ai Wardaman, Trotta raccoglie le parole di Bill Yidumduma, un anziano della comunità aborigena che racconta: «ogni notte in cui dovevamo tornare al campo, l’unica indicazione era una stella. Come viaggiare? Segui la stella». Sebbene le immagini del James Webb Space Telescope e di altri osservatori siano gloriose, misteriose e profonde e sebbene possiamo guardarle dai nostri schermi luminosi, i Wardaman e Trotta ci ricordano di «riabbracciare le stelle» nel cielo, seguendo una via diversa da quella percorsa fino ad ora, alla conquista dello spazio. Una via che passa dalle linee del suono (soundline) e dalle dreaming tracks, e dal ricordarci come sarebbe un mondo senza stelle in cui ci si può perdere del tutto.


  1. Tratto da Trotta, R. (2023). Starborn: How the Stars Made Us – and Who We Would Be Without Them. Hachette UK., eBook, libera traduzione. La traduzione italiana del testo, a cura di Luisa Doplicher e Daniele A. Gewurz, uscirà a breve con Il Saggiatore. ↩︎
  2. Ibidem. ↩︎
  3. Le nuvole grigio-nerastre, che portano precipitazioni non temporalesche a cui si riferisce il testo, vengono chiamate scientificamente nembostrato. ↩︎
  4. Ibidem. ↩︎
  5. Ibidem. ↩︎
  6. Ibidem. ↩︎
  7. Ibidem. ↩︎
  8. Ibidem. ↩︎
  9. Ibidem. ↩︎
  10. Il testo preso a riferimento è il seguente: Knight, C. (2013). Blood relations: Menstruation and the Origins of Culture. Yale University Press. ↩︎
  11. ndr: nella versione inglese: month, meal, menstruation and meal, in Trotta, R. (2023). Starborn: How the Stars Made Us – and Who We Would Be Without Them. Hachette UK., eBook libera traduzione. ↩︎
  12. Ibidem. ↩︎
  13. Ibidem. ↩︎

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