Se i nomadi del mare non lo sono più
La storia dei Sama Dilaut nel documentario di Rhadem Musawah
I Sama Dilaut sono un popolo costretto dal cambiamento climatico a stanziarsi sulla terraferma. L’omonimo documentario ne racconta le sfide tra discriminazione, rischio di apolidia e agricoltura insostenibile, per raccogliere la loro voce e le loro speranze nel futuro
Una donna dai tratti gentili, incorniciata da un velo bordeaux e con lo sguardo fisso a terra inizia a cantare una nenia in filippino. Non ci sono sottotitoli: potrebbe parlare di guerra, di mare o di speranza. Dietro di lei, i profili di alcune barche dondolano al ritmo delle onde e del canto. Dopo l’ultima nota, con lo sguardo fisso in camera, un sottile velo di commozione le impreziosisce gli occhi piccoli e profondi: molti componenti della sua famiglia si sono ammalati a causa dell’inquinamento del mare.
Rhadem Musawah è un documentarista gay musulmano indigeno e attivista per i diritti umani delle Filippine, membro dell’associazione PhilSilat del Comitato olimpico filippino, Changemaker Alumnus della Thomson Reuters Foundation, Core Member di Vote Philipinas della Commissione elettorale filippina e membro del consiglio di amministrazione dell’organizzazione MUJER LGBT+. Consulente internazionale per i programmi umanitari nelle Filippine.
Guarda il trailer del documentarioÈ una delle scene del documentario Sama Dilaut, vincitore del Toronto International Women Festival (2023) e l’International Film Festival The Hague (2023). Il film raccoglie le storie dell’omonimo popolo indigeno, un tempo nomade del mare e oggi costretto a stanziarsi sulla terraferma a causa del cambiamento climatico. Il produttore esecutivo Rhadem Musawah, insieme a un team di dieci persone, si è recato nell’isola di Sibutu, nella provincia di Tawi-Tawi, nel sud delle Filippine, per incontrarli.
Chi sono i Sama Dilaut?
Il nome politicamente corretto è Sama Dilaut, ma sono comunemente conosciuti come Sama Bajau. Sono un popolo indigeno che per centinaia di anni ha vissuto nelle acque del mare di Suno, tra la provincia filippina autonoma di Tawi-Tawi, le Filippine e la penisola di Saba, in Malesia. Vivevano liberamente in mare aperto, e quindi si spostavano da una comunità all’altra, in base alle aree ricche di pesci. Ballavano al ritmo delle onde e amavano vivere in mare, dove le loro barche trascendevano l’essere vascello per diventare l’anima stessa delle loro case e della loro identità culturale. Il loro collegamento con l’acqua è molto diverso da quello delle persone che vivono sulla terraferma: il mare non è semplicemente ciò che ha da offrire, come del buon pesce o la possibilità di nuotare, ma è in stretta connessione con le loro vite. L’esempio più calzante è il rito che ancora oggi si compie alla nascita di un nuovo essere umano, che viene gettato in mare e recuperato subito a nuoto dal padre, affinché possa sin dai primi respiri incontrare l’acqua salata e affezionarvisi. Nella cultura dei Sama Dilaut, il mare è vita e il loro compito è proteggerlo perché da esso deriva tutto il resto.
È triste vedere come li stiamo spingendo al punto in cui non solo non sono più in grado di proteggere il mare, ma essi stessi contribuiscono a danneggiarlo.
Può spiegarci meglio? Com’è cambiato il loro rapporto con il mare? E che tipo di impatto ha avuto il cambiamento climatico?
La maggior parte delle volte quando si parla di cambiamenti climatici, non si parla delle persone che vivono in mare ma sempre delle vittime di frane e di inondazioni nelle città e sulla terraferma. Il documentario Sama Dilaut, invece, vuole raccontare l’impatto del cambiamento climatico su un popolo del mare e le sue ben visibili conseguenze. La prima tra tutte: l’abbandono della vita nomade tra le acque.
Per registrare il documentario, tre anni fa, mi sono recato all’isola Sibutu, a sud delle Filippine, due volte: il primo viaggio è durato otto giorni e il secondo dieci. Grazie a Zayda Halun, Director of Oceanology alla Mindanao State University di Tawi-tawi, ho scoperto che il riscaldamento dell’oceano sta portando a una acidificazione delle acque di fronte a Sibutu e a un danneggiamento del colore delle barriere coralline con conseguente migrazione dei pesci. Il punto è che non sono solo i pesci a essere costretti a migrare, ma i Sama Dilaut stessi, che non avendo più accesso alla loro fonte prima di sostentamento, la pesca, hanno dovuto raggiungere la costa e stabilizzarsi sulla terraferma.
La scarsità dei prodotti marini li ha trasformati da pescatori a coltivatori di alghe1, in una lotta quotidiana contro la povertà.
Questo avviene a causa di una disparità tra i guadagni degli agricoltori di alghe e le industrie che beneficiano dei prodotti coltivati, per via di una difficoltà di commercializzazione e, soprattutto, per via dello sfruttamento da parte degli intermediari, come aziende private o piccoli commercianti. L’isola di Sibutu è, infatti, molto lontana dalle città principali della costa e, non essendoci un’infrastruttura economica regolamentata che permetta ai Sama Dilaut di vendere le alghe direttamente ai compratori, sono fioriti gli intermediari privati e con essi gli abusi. In pratica, anche se coltivano 50 chili di alghe per tre mesi, gli ex-pescatori non riescono a guadagnare abbastanza per sopravvivere per tre giorni. E, a volte, i Sama Dilaut per ottenere reddito sono costretti anche ad immettere delle sostanze chimiche e dei fertilizzanti in mare, inquinando non solo l’acqua del mare ma anche la loro connessione ad essa.
La migrazione forzata dei Sama Dilaut verso la costa ha messo in luce dei problemi di origine giuridica e una contrapposizione tra i diritti di mare e i diritti di terra. Qual è il sentimento comune di questo popolo ora?
I Sama Dilaut hanno sempre vissuto in isolamento, in mezzo al mare, e c’è una difficoltà intrinseca nell’incontro con la terraferma, sia a livello giuridico che a livello sociale. A livello giuridico, questo popolo è a rischio di apolidia, perché la maggior parte dei Sama Dilaut non ha dati governativi né documenti d’identità. Nelle Filippine c’è un’importante legge nazionale sui popoli indigeni2 che, però, riguarda solo le terre ancestrali e non le acque. Questa doppia carenza (governativa e legislativa) comporta e ha comportato un impedimento all’accesso alla giustizia, alle cure di base e a tutta quella serie di opportunità garantite dagli Stati che diamo per scontate. Ci sono persone nate in Malesia, in Indonesia e nelle Filippine che non hanno i documenti per dimostrare la propria cittadinanza. C’è poi la discriminazione sociale, che di tutto questo è figlia. I Sama Dilaut vengono accusati di essere membri di comunità terroristiche, arrestati e stigmatizzati. Pensano di non avere voce in capitolo perché abituati ad essere un popolo silenzioso, discreto e isolato, in cui ora la lotta per la sopravvivenza la fa da padrone. I Sama Dilaut si trovano così dalla parte di chi accetta passivamente come se non avesse altra scelta se non quella di fluire nell’acqua.
Prima di realizzare il documentario, ho fatto molte ricerche per approfondire il loro rapporto con il mare e la pesca, la loro cultura e stile di vita, i cambiamenti degli ultimi anni ma quando sono arrivato sul campo ho trovato uno scenario completamente diverso. Ho scoperto che molti dei testi di ricerca accademica che ho letto sono basati semplicemente sulla letteratura: raccogliere informazioni scritte e assemblarle secondo nuove prospettive. Ma c’è un’enorme differenza tra il leggere e il vivere i Sama Dilaut.
Essere lì con loro è, infatti, un’esperienza molto dolorosa. Quando abbiamo girato il documentario, la maggior parte delle inquadrature le abbiamo fatte da lontano, perché ci sembrava che fosse giusto avvicinarsi in punta di piedi a un popolo ferito. Vedevamo la paura nei loro occhi, come se fossimo dei nuovi abitanti della terraferma, pronti a discriminarli. Ed è solo grazie alla mediazione di Rosalyn Dawila, direttrice dell’Indigenous Children’s Learning Centers che si occupa di istituire corsi d’istruzione per i bambini e le bambine Sama Bajau, che io e lo staff del documentario siamo riusciti a entrare in contatto da pari a pari con questa comunità. Dawila ci ha presentato a sorpresa durante una lezione, abbiamo iniziato a giocare con i bambini e da lì abbiamo conosciuto i genitori in un vero e proprio processo di avvicinamento reciproco.
Qual è l’obiettivo di questo documentario?
I Sama Dilaut si trovano in un’isola remota, dove non ci sono media, segnale telefonico o televisivo. Sono una comunità indigena che non piace al mainstream perché i Sama Dilaut non sono istruiti, non hanno rappresentazioni artistiche particolarmente sfarzose né abiti variopinti: sembra che non abbiano nulla da offrire alle persone della terraferma. Con questo documentario vorrei dimostrare che non è così e sensibilizzare l’opinione pubblica affinché queste persone vengano riconosciute e conosciute perché il punto è che siamo noi, dalla terraferma, ad avere distrutto lo stile di vita di un popolo e il suo mare e a noi spetta fare qualcosa. Durante le riprese, ho intravisto qualcosa di piccolo e di molto simile alla speranza e al desiderio di un futuro migliore e che vorrei alimentare.
Molti genitori mi hanno detto che vorrebbero davvero che il futuro fosse più gentile per i loro figli, perché il mondo non è mai stato gentile con loro.
A questa speranza il documentario contribuisce.
Lo stesso mio ruolo, all’interno del documentario, non è stato solamente quello di produttore e aiuto-regista ma anche di essere una voce interna alle Filippine che potesse aiutare nella gestione delle risorse umane, dei diritti umani, dei contatti con il governo e i militari. A distanza di due anni dal documentario, ho avuto l’opportunità di svolgere un lavoro di consulenza per la FAO – Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura con l’obiettivo di procurare assistenza ai coltivatori di alghe Sama Dilaut e sradicare l’uso di fertilizzanti sintetici3. Siamo riusciti a ottenere un finanziamento dalle Nazioni Unite per fornire un supporto formativo su come coltivare in modo sostenibile e responsabile le alghe, dare delle piccole sovvenzioni per la coltivazione ed eliminare il problema degli intermediari privati, affidando questo ruolo al governo proviniciale di Tawi Tawi e al MAFAR (Ministry of Agriculture, Fisheries and Agrarian Reform), che sono ora gli addetti a spedire le alghe alle grandi città per gli acquirenti. Il progetto dura tre anni ed è ancora in corso. All’inizio di quest’anno, inoltre, c’è stato un memorandum d’intesa tra Filippine, Malesia e Indonesia, a Kuala Lumpur durante la Conferenza Mondiale sull’apolidia4 per affrontare la situazione dei Sama Bajau e il governo filippino sta iniziando a contare la comunità Sama Bajau nel censimento delle Filippine a cui, spero, seguirà presto l’emissione dei documenti governativi.
- Secondo l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, Cina, Indonesia, Corea del Sud e Filippine sono i principali paesi produttori di alghe a livello mondiale. L’allevamento di alghe è un settore dell’acquacoltura in rapida crescita, con una produzione annuale di circa 33 miliardi di tonnellate per un valore di 11,8 miliardi di USD. Le Filippine, in particolare la provincia insulare di Tawi-Tawi sotto la regione autonoma di Bangsamoro del Mindanao musulmano, contribuiscono in modo significativo alla produzione globale di alghe. Le Filippine producono 1,3 milioni di tonnellate di alghe all’anno, di cui il 40% proviene da questa regione (fonte: United Nations FAO e Bureau of fisheries and aquatic resources sotto il dipartimento filippino dell’agricoltura). ↩︎
- Legge n. 8371, meglio nota come Indigenous Peoples’Right Act (IPRA). L’IPRA è un testo di legge completo che racchiude in sé i principi contenuti nella Convenzione n. 169 dell’Organizzazione internazionale per il lavoro (ILO) sui diritti dei popoli indigeni e tribali e che armonizza le norme filippine con il diritto Internazionale. ↩︎
- Tawi-Tawi, nel sud delle Filippine, è ricca di colture di alghe. Il progetto “farmers-fisherfolks advancement and integration to resilient value chain in BARMM” (FAIR-VALUE) è stato lanciato per mettere in grado i coltivatori di alghe marine di adottare pratiche di coltivazione e commercializzazione sostenibili per raggiungere quattro obiettivi. Per approfondire: https://www.youtube.com/watch?v=iBva4dEgrnA ↩︎
- La Conferenza mondiale sull’apolidia 2024 si è tenuta dal 26 al 29 febbraio 2024 alla Taylor’s University di Kuala Lumpur, in Malesia. Organizzata dall’Istituto sull’apolidia e l’inclusione (ISI), da Nationality for All (NFA) e da Development of Human Resources for Rural Areas (DHRRA) Malaysia, la conferenza ha riunito oltre 400 partecipanti con esperienze vissute e apprese di apolidia provenienti da tutto il mondo per scambiare conoscenze, prospettive, idee e competenze. ↩︎