Il piacere di un sapore ignoto e insieme conosciuto può diventare un veicolo forte di amicizia e turismo sostenibile tra i popoli: ecco come la food blogger ivoriana Yasmine Fofana, la giornalista Sarah Kamsu e la fotografa Viviana D’Angelo ci stanno lavorando
Adora il fonio1, il suo sapore leggero e antico: un cereale che ricorda la nocciola ma, soprattutto, le tradizioni. È una grande fan del foufou2, l’impasto amidaceo dalla consistenza morbida e omogenea, che ancor più delle spezie rende le zuppe di verdure, pesce o carne saporite e “confortanti”. Sia il fonio che il foufou evocano in Yasmine Fofana un profondo senso di nostalgia e potenziano il legame con la sua casa e la sua terra.
Yasmine Fofana Professionista del marketing e della comunicazione con oltre 16 anni di esperienza, è la fondatrice di Afrofoodie, primo food blog della Costa d’Avorio. Nel 2016 è stata selezionata come Mandela Washington Fellow nel 2016 nell’ambito della “Young Africa Leaders Initiative” del Presidente Obama, come Chevening Scholar nel 2017, come beneficiaria della “African Women Entrepreneurship Cooperative” nel 2019/2020 e come Fellow nel 2023 nel programma “Leading African Women in Food Fellowship” di African Food Changemakers. Yasmine è un’esperta IGCAT (Istituto Internazionale di Gastronomia, Cultura, Arti e Turismo) dal 2024 ed è attualmente il primo ambasciatore ivoriano nominato dalla World Food Travel Association.
Scopri Afrofoodie Visita il profilo InstagramNon sono “solo” cibi buoni di gusto, sono cibi buoni per il suo Paese, la Costa d’Avorio, e possono diventarne gli ambasciatori internazionali. Questi come altri, come ogni sapore locale che ha la capacità di parlare di tradizioni poco note e raccontare le storie dei loro protagonisti, a chiunque, qualsiasi lingua parli.
Un menù di culture autentiche
«In Costa d’Avorio, il cibo è parte integrante dell’esperienza culturale dei turisti. Piatti popolari come l’attiéké, un cuscus di manioca fermentato3, e la garba, un cibo di strada4, sono spesso un punto di forza per i visitatori» spiega Fofana. Negli ultimi anni nota una crescente curiosità nel confrontarsi con le culture locali, cibo compreso, da assaggiare con veri e propri tour gastronomici e avventure di street food.
«Avviene sull’onda dell’apprendimento per viaggi sostenibili e culturalmente significativi a livello globale, ma nel mio Paese il legame tra tradizione culinaria e turismo è ancora poco sviluppato».
«Bisogna fare di più» spiega, credendo profondamente nel potere del piacere culinario, ma anche della necessità di «rendere le esperienze alimentari africane ampiamente accessibili e ben documentate».
Solo così, la gastronomia può diventare una pietra miliare della strategia turistica della Costa d’Avorio, elevando il turismo alimentare a motore di orgoglio culturale e di crescita economica.
Quelle di Fofana non sono raccomandazioni, sono azioni, perché è lei per prima ad essersi rimboccata le maniche per compiere questo passo. Già oltre dieci anni fa, infatti, ha dato vita ad Afrofoodie, «per trasformare la percezione del cibo africano, promuovendo al contempo lo scambio culturale e l’emancipazione economica». Ha iniziato con piccole dosi, “qb”, diventando il primo food blog della Costa d’Avorio, per evidenziare la diversità della scena gastronomica di Abidjan e consigliare dove mangiare a locali e turisti. Nutrendolo con cura, l’ha trasformato in una piattaforma con una missione più ampia: mostrare la ricchezza della cucina ivoriana e africana, celebrarne la diversità e promuovere gli imprenditori alimentari locali.
Oggi Afrofoodie è un’iniziativa multiforme che mette in luce le culture culinarie di tutto il continente. Lei lo ama definire anche «un veicolo di advocacy, che sposta le narrazioni sul potenziale alimentare dell’Africa e collega la gastronomia al turismo e all’imprenditoria».
Quanti Afrofoodie ci vorrebbero per raccontare l’universo di sapori, storie e persone che popolano un continente di oltre 50 Paesi e 60 dialetti? Centinaia, o forse, per trasformare la cultura alimentare africana in un’opportunità, basterebbero alcune azioni strategiche come quelle che Fofana stessa suggerisce. Dare potere ai produttori alimentari locali, per esempio, sostenendo agricoltori, chef e imprenditori con l’accesso ai mercati e alle risorse, garantendo al contempo pratiche commerciali eque. Promuovere l’educazione culinaria, coltivando una nuova generazione di chef che sappiano mescolare sapientemente innovazione e tradizione. Amplificare le narrazioni africane osando sfidare gli stereotipi. Incoraggiare il sostegno politico, chiedendo a gran voce ai governi di investire in infrastrutture alimentari, proteggere le ricette autoctone e commercializzare il cibo africano come risorsa turistica. «Si potrebbe anche far leva sulle tradizioni culinarie festive attraverso festival gastronomici, contenuti digitali e iniziative di scambio intergenerazionale» aggiunge Fofana al suo elenco, e si sente che ha fame di far conoscere i sapori della sua terra, una fame insaziabile.
Assaggi di altrove in Italia
A migliaia di chilometri di distanza, a Milano Sarah Kamsu, giornalista italo-camerunense, porta avanti la stessa missione con il suo We Africans United, con cui organizza, supporta, aggrega e incoraggia numerose iniziative che proprio nel piacere del cibo cercano e trovano una leva efficace per promuovere sul territorio italiano le tante culture africane. «Nascono soprattutto dalla consapevolezza dell’ignoranza e dei pregiudizi esistenti in modo piuttosto evidente».
«A molti suona strano e senza senso dire che si va a mangiare africano, non riescono a immaginare cosa voglia dire. Altri invece hanno una visione monoculturale del continente, trascurandone la profonda diversità», spiega Kamsu.
Proprio il cibo, i sapori, le ricette e le tradizioni culinarie si stanno rivelando sempre di più uno straordinario e potente “ponte” per trasmettere la complessità e la diversità delle culture africane.
Sarah Kamsu è una giornalista italo-camerunense nata nel 1997 a Milano. Dopo aver studiato scienze politiche tra Italia e Francia e aver collaborato con il giornale sociale Il Bullone ha deciso di fondare We Africans United, attuale punto di riferimento per chi ha origini africane e non solo, per rendersi conto che la storia dell’Africa è molto più che schiavitù e colonizzazione. Nel 2022, Kamsu ha condotto Afrik Story, un programma televisivo sui personaggi africani che hanno segnato la storia, trasmesso in 45 Paesi africani e trasmesso in streaming in tutto il mondo.
Visita il sito di We Africans United Visita il profilo InstagramI Jallof Talk ne sono la dimostrazione. Li ha creati lei, siamo già quasi alla terza edizione, e sono una competizione culinaria attorno a un piatto africano5 di cui almeno tre diversi Paesi, la Nigeria, il Senegal e il Ghana, vantano l’origine e la cucina “migliore” e “più autentica”. Kamsu ha colto al balzo questa situazione trasformandola in serate in cui tre cuochi sottopongono le loro versioni del piatto alla giuria che assaggia e vota. Non bisogna essere per forza chef per vincere, anzi: l’ultima volta una signora senegalese ha battuto a mani basse entrambi i cuochi professionisti di Nigeria e Ghana, conquistando i partecipanti che hanno gustato la sua cucina, ma anche approfondito la sua cultura. Cosa non scontata, in una Italia un po’ superficiale e disinteressata, in cui esiste lo straniero e il cittadino italiano.
Rispetto al resto d’Europa, secondo Kamsu, nel nostro Paese c’è una maggiore ignoranza, in parte per mancanza di formazione: «A scuola la storia africana si riduce al colonialismo e ad altri pochi concetti, anche nelle università viene spesso poco proposto e affrontato con cura» racconta. E poi c’è una forte responsabilità dei media, la più preoccupante, perché gli stereotipi restano presenti anche se la società evolve, impattando sulla visione che si ha del continente, soprattutto se non lo si assaggia.
Questa analisi merita un distinguo, però, generazionale. Esiste una diversità di approccio tra over 50-60 e giovani. «I primi spesso si interessano all’Africa perché hanno svolto o stanno svolgendo esperienze di volontariato e viaggi. Da un lato ne hanno un’esperienza più diretta, ma dall’altro conservano un atteggiamento di assistenzialismo e superiorità. I giovani no, molto meno» spiega, descrivendo le nuove generazioni come più aperte e curiose. Un’ottima notizia, ma anche i più agé si possono recuperare, prendendoli per la gola.
«Proprio il cibo, infatti, può aiutarli ad aprire gli occhi e abbandonare l’atteggiamento attuale. Un pasto condiviso può favorire il dialogo interculturale alla pari e far nascere empatia, rompendo gli stereotipi» spiega Kamsu, convinta che, più che arrabbiarsi o indignarsi, serva «dare delle alternative alle narrazioni dominanti».
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Il rischio dell’esotismo
Oltre a correggere punti di vista antichi, o del tutto fuori luogo, i sapori africani possono anche da Milano favorire un turismo sostenibile e attento verso questo continente. Possono iniziare a ingolosire, a farne percepire la varietà di ricette e di culture che può offrire e a suscitare la voglia di andare ad assaggiarle sul posto, in modo rispettoso. «Funziona: sempre più persone che iniziano a frequentare i nostri eventi, poi decidono di partire per un preciso Paese che li ha colpiti. È importante, perché l’Africa rischia di perdere molto del suo potenziale turistico a causa delle notizie sempre negative che la circondano» racconta Kamsu. Una minaccia da cui difendersi, come lo è anche la strumentalizzazione delle culture africane da parte di chi ne vuole trarre profitto, estrapolandone dei concetti “qui e là” perché potenzialmente “trendy”. «C’è chi prova a puntare sull’esotismo delle nostre culture, dei nostri cibi, trasformandoli in mode, senza conoscerne e volerne valorizzare la profondità e tutto il bagaglio di tradizioni che li rendono speciali» racconta Kamsu, attiva a Milano, città particolarmente abile e sensibile a trend del momento, effimeri, frenetici, superficiali. E contrattacca con una costante e sempre più appassionata contronarrazione, che regala un quadro culturale completo e profondo, autentico e decisamente più saporito. E lo fa coinvolgendo direttamente le persone, le persone africane e i loro cibi, ingredienti, racconti, ricordi, presenti, costruendo una narrazione collettiva irresistibile. Giorno dopo giorno, pasto dopo pasto.
Immortalare il mondo dei sapori
Uno dei tanti motivi per cui il piacere del cibo si rivela particolarmente potente, risiede anche nella sua estetica. E questo lo sa bene chi ha scelto di immortalarlo per professione, con scatti in cui sapori e profumi, consistenze e origini possano raggiungere chiunque li guardi nel mondo.
Nulla a che vedere con fugaci scatti di piatti catturati al volo per popolare la propria bacheca Instagram e far lievitare il numero di followers: si tratta di una vera e propria arte, a cui dedicare l’intera vita. Viviana D’Angelo è una di quelle persone che ha scelto di farlo, tardivamente, ma senza alcun rimpianto.
Viviana D’Angelo, laureata in Giornalismo e nuovi media e in Comunicazione tecnologica per i beni culturali presso l’Università della Svizzera Italiana (Lugano). Attualmente vive nel sud della Germania, dove lavora per alcuni produttori locali di alimenti biologici, per numerose case editrici di libri di cucina e per riviste gastronomiche. La sua attenzione si concentra sulla fotografia di scena, oltre a servizi, viaggi e fotografie sul campo, sempre in relazione al cibo e alle storie intriganti che vi sono dietro. Nel 2019 ha vinto il Food Feature Award del Foodphoto Festival di Vejle, in Danimarca, uno dei premi più importanti del settore. Nell’aprile 2020 si è aggiudicata il 3° posto del Pink Lady Photography Award, categoria “food in Action” con la sua serie che documenta lavoro e conflitti sociali all’interno di un macello.
Scopri il sito ufficiale Visita il profilo InstagramDa sempre creativa, studiosa di comunicazione, come piano B aveva il Catering ma poi è arrivato il Piano C, il cibo fotografato: «per mostrare la mia offerta gastronomica, ho iniziato con i piatti che preparavo, illuminandoli con una lucetta da scrivania, con una macchina fotografica compatta, da turista. Poi una meravigliosa amica mi ha parlato del Foodphoto Festival di Tarragona, in Spagna, ci sono andata e sono rimasta completamente affascinata dalla food photography. Otto anni dopo ho vinto a questo stesso festival il premio per il miglior reportage gastronomico».
Il valore invisibile del cibo in un click
Una delle sfide che più appassiona D’Angelo, è quella di riconoscere e far apprezzare il valore delle cose che mangiamo, sia delle materie prime che di ricette e pietanze. «Il piatto finito è la punta di un iceberg: una ricetta è un’espressione culturale alla pari di un dipinto, un brano musicale, una poesia o un film».
Si inserisce e nasce all’interno di un costrutto culturale e ne diventa l’espressione più accessibile. Tutti mangiamo e sentiamo sapori, profumi, percepiamo consistenze, temperature, contrasti e armonie. È certamente uno dei punti di contatto tra culture più immediati, soprattutto quando si tratta di pietanze tradizionali, semplici, “democratiche”». E poi c’è il piacere e il valore nella produzione del cibo, da andare a scovare e immortalare in fattoria, sui campi, nel macello. «Ricerco e ritraggo risorse, persone, lavoro e passaggi per documentare processi ugualmente importanti rispetto al piatto finito. Lo ritengo fondamentale perché pochi oggi si rendono conto del valore fatto di ore di lavoro, in persone, conoscenze, manodopera necessarie, in materie prime e di quanto la qualità di tutto questo faccia la differenza» racconta. Dedicando tempo anche a queste fasi “pre”, a volte trascurate, mal documentate o strumentalizzate, D’Angelo ha iniziato a capire e vuole sottolineare come «ogni volta che facciamo un acquisto indirettamente diamo il nostro supporto a un certo tipo di attività, aiutandola a sostentarsi». Questo vale ovunque, a maggior ragione quando il cibo può fare da ambasciatore di una cultura e incoraggiare un turismo responsabile e attento. Consapevole. «Attraverso la fotografia di sapori e ingredienti si può invogliare a visitare dei luoghi dove si entra realmente in contatto con la cultura e le persone del posto. Spesso gran parte maggior degli introiti provenienti da attività turistiche non rimane nel Paese ma finiscono in mano di compagnie estere, per via di pacchetti vacanza all inclusive con tragitti serrati creati da chi non conosce e non ha interesse a far conoscere le tradizioni locali», racconta.
«La fotografia può avere allora un forte potere educativo, nel marketing turistico: ogni reportage gastronomico deve aprire la porta verso delle proposte meno in vista e meno date per scontate».
Ricette spirituali a Bali
D’Angelo ne ha vissute parecchie. Sceglie di raccontare quelle dal sapore indonesiano, assaggiato a Bali nel 2018 assieme alla cheffe e consulente gastronomica Antje de Vries6 per realizzare un documentario sulla tradizione gastronomica legata alla religione balinese, in cui molti rituali sono accompagnati da cibi tradizionali di cui i turisti ignorano l’esistenza. D’Angelo li rievoca con potenza: «Ricette antichissime, piatti complessi, pieni di spezie, colorati e dagli aromi talmente intensi da quasi frastornarti. I dolci sono spesso profumati quasi florealmente, dall’erba Pandan che viene usata moltissimo, assieme ai frutti esotici e i fiori dell’isola». Per fotografarli nel luogo giusto e nel momento giusto ha partecipato alla Festa dell’Otonan (in inglese baby grounding)7 con cui si celebra la prima volta in cui un bambino viene poggiato a terra una volta raggiunti i 210 giorni di vita.
«Prima gli spiriti cattivi entrerebbero nel suo corpo attraverso la fontanella e ne prenderebbero possesso – spiega – è un rito di passaggio, la notte prima gli uomini uccidono i maiali per il banchetto che poi cucinano vestiti a festa nel tempio in mezzo alla giungla, alle tre di notte. Le donne nelle feste non cucinano, loro preparano salsicce, sminuzzano interiora, decorano spiedini: scene meravigliose e suggestive che raccontano tradizioni importanti da conoscere e proteggere. E il piacere e il rispetto del cibo ci può aiutare a farlo». D’Angelo ancora ricorda tortini di riso ripieni di banana cotti al vapore in foglie di banana, caffè zuccherino, altri dolciumi vari resi fragranti dallo zucchero di canna, buoni ma soprattutto simboli ed elementi di valorizzazione di una cerimonia che sente il dovere di raccontare «nella speranza di ridare visibilità alla cultura locale». Esiste, da occidentale, il rischio di raccontare una versione falsata degli eventi. Per evitare di farlo ha scelto come formula «il diario di viaggio, in chiave personale, immergendosi nella missione, partecipando a una miriade di funzioni ed eventi sociali: da una cremazione, a una Messa sul mare, alla benedizione di una casa. Ho imparato a creare decorazioni cerimoniali di pasta di riso (tipo plastilina, ma fatta con la farina di riso) e preparato dolci assieme a una pasticceria specializzata in dolci per cerimonie, per conquistare e regalare nel mio lavoro uno sguardo approfondito, non solo in pentole, ma anche in credenze e modi di pensare totalmente diversi dai nostri». Il reportage è diventato un libro8, con sua grande gioia e soddisfazione, ma la gioia forse più grande è stata quella dei protagonisti ritratti:
«Erano entusiasti che due donne occidentali si interessassero alla loro religione, le loro vite, i loro cibi. Per me è stata un’ulteriore conferma che stavamo facendo la cosa giusta».
- Per informazioni scientifiche sulle proprietà del fonio, Zhu, F. (2020). Fonio grains: Physicochemical properties, nutritional potential, and food applications. Comprehensive Reviews in Food Science and Food Safety, 19(6), 3365–3389. https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/33337050/ ↩︎
- Per approfondire la natura del foufou, Fufu for modern times – Africa Science Magazine. (2019, June 24). Africa Science Magazine. https://sciafmag.com/2019/06/24/fufu-for-modern-times/ ↩︎
- Per scoprire le proprietà dell’attiéké consulta questa tabella tratta da Alamu, E.O., Abass, A.,Maziya-Dixon, B., Diallo, T.A., Sangodoyin, M.A., Kolawole, P., Tran, T., Awoyale, W., Kulakow, P., Parkes E., Kouame, K.A., Amani, K., Appi, A., and Dixon, A., (2020). Report on the status of Attiéké production in Côte d’Ivoire, International Institute of Tropical Agriculture. https://www.researchgate.net/publication/343306883_Report_on_the_Status_of_Attieke_Production_in_Cote_d’Ivoire_Roots ↩︎
- Per avere un’idea di come si può cucinare il garba, Ivorian food: the GARBA! | Awalebiz. (n.d.). https://www.awalebiz.com/en/all-blog-articles/ivorian-food-the-garba/ ↩︎
- Jollof, la ricetta in versione ghanese https://www.instagram.com/reel/CrfmQTRO2aL/?igsh=aW0zbGRiaXFzeTRy ↩︎
- Scopri il profilo Instagram di Antje de Vries https://www.instagram.com/foodanjoy?igsh=b2JlOHh5YmI0bjk4 ↩︎
- Per approfondire il significato della Festa dell’Otonan, Birth Hereditary: Understanding the significance of the Balinese Otonan ceremony. (n.d.). Birth Hereditary: Understanding the Significance of the Balinese Otonan Ceremony | What’s New Indonesia. https://whatsnewindonesia.com/bali/feature/education/birth-hereditary-understanding-significance-balinese-otonan-ceremony ↩︎
- Per il reportage, D’Angelo, V. (2021). Eating with the Gods. Südwest. ↩︎